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Tutte le incognite di WeWork dopo le dimissioni del fondatore

Adam Neumann ha co-fondato WeWork nel 2010. (Photo by Noam Galai/Getty Images for TechCrunch)

Il sogno di Adam Neumann è rientrato nel cassetto martedì sera quando il fondatore e primo azionista di WeWork ha dato le dimissioni dalla carica di ceo di quella che, nel giro di dieci anni, è diventata la prima proprietaria di immobili commerciali a Manhattan oltre a piantare bandierine su uffici, negozi e centri commerciali un po’ a tutte le latitudini. A fermare l’ascesa già irresistibile di Neumann, israeliano, 40 anni, un fisico da attore e, dicono i maligni, un debole per le serate a base di tequila sui roof della Grande Mela, è stata la bocciatura degli analisti.

Al momento di fissare il prezzo del debutto in Borsa della sua creatura il mercato ha gelato l’entusiasmo di Neumann, dei suoi soci e, non meno importante, di JP Morgan, la banca che ha prestato 6 miliardi di dollari nella convinzione che il titolo, stimato lo scorso gennaio attorno ai 47 miliardi di dollari, potesse almeno raddoppiare di valore dopo lo sbarco a Wall Street. Al contrario, le richieste si sono fermate sotto l’asticella di 15 miliardi di dollari, molto meno delle necessità di cassa della società e degli obiettivi dei grandi azionisti, a partire da Softbank, il colosso finanziario giapponese guidato da Masayoshi Son che in questi anni ha investito 10,5 miliardi di dollari per finanziare il re dei mattoni in affitto che rischia di far la fine di Travis Kalanick, l’inventore di Uber, o del creatore di Lyft, entrambi espulsi dalla guida delle loro creature: Wall Street, insomma, dopo gli anni della grande euforia non intende più far sconti ai campioni dell’economia a suon di giga.

Forse è presto per dire che l’avventura di Neumann è finita, perché ha saldamente in mano il controllo della proprietà, in virtù dello statuto che prevede che le sue azioni abbiano un valore tre volte superiore a quelle degli altri soci. Lui, poi, confida di poter risalire la corrente attribuendo il flop al fatto che l’attenzione degli operatori si è concentrata più sulle sue performance da jet set piuttosto che sul valore del business. Ma le cifre sono impietose: i 3,5 miliardi di dollari che WeWork contava di raccogliere con l’Ipo erano necessari per le casse della società ormai a secco. E non sarà certo Jamie Dimon, il banchier di JP Morgan che ha voluto vederlo lunedì, prima delle dimissioni a correre in suo soccorso.

Ma qual è la causa delle disavventure di Neumann? Per tentare di capirlo dobbiamo rifarci alla sua business idea: affittare immobili ai locatori che altri non sono che agenzie di work, che a loro volta dopo aver rimesso a nuovo gli spazi, li subaffittano (con un congruo guadagno) al cliente finale che potrà disporre di uffici o negozi funzionali, nuovi e di prestigio che occuperà per il tempo che vuole, prima di restituirli al proprietario. Un po’ come affittare l’auto o un camion senza disporre della cifra necessaria. L’ideale, insomma, per non impegnare capitali o perder tempo prezioso. Ovvero una formula per far quattrini a palate se applicata su larga scala. E Neumann, una che ama far le cose in grande, ha spiegato ai suoi finanziatori che il mercato potenziale riguardava 255 milioni di clienti per un totale di 3.000 miliardi di dollari. E gente come Dimon e Mayasoshi Son, il top della finanza mondiale, ci ha creduto.

Eppure non era difficile individuare il punto debole. Finora la società ha speso molto di più di quel che non abbia incassato. Come era inevitabile, se si voleva dotare WeWork della taglia necessaria per un business di taglia mondiale. In nove anni Neumann ha aperto più di 500 siti in un centinaio di città spendendo circa in doppio delle entrate pur in ascesa a 3,3 miliardi per quest’anno. Inoltre, la formula è destinata a non funzionare nei momenti di crisi. I clienti di WeWork, infatti, occupano i locali in media per 15 mesi, molto meno della durata dei contratti della casa madre (15 anni). Perciò il business funziona nei momenti di boom ma è destinato a soffrire quando la congiuntura rallenta. E in qui momenti, per giunta, WeWork non può tagliare i costi. Di qui, al momento di finanziare l’Ipo, la prudenza degli investitori assai lieti di poter lasciare il cerino in mano a Jp Morgan che, statene certi, ne verrà fuori alla grande. Neumann forse no. Ma non preoccupatevi, è un tipo sveglio. E poi c’è sempre Hollywood. O Netflix.

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