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Brexit infinita, ma Londra ha abbandonato se stessa già da tempo

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La commedia della Brexit della Gran Bretagna dall’Unione Europea potrebbe essere vicina all’ultimo atto oppure a un nuova svolta, qualora dovesse concretizzarsi l’ipotesi di un rinvio di alcuni mesi delle decisioni o delle operazioni di uscita. Intanto, a pochi giorni dalla scadenza del 31 ottobre, la situazione versa ancora nell’incertezza, in assenza di un accordo tra il governo britannico e l’Ue. Fin dall’esito del referendum del giugno del 2016, promosso dal primo ministro allora in carica David Cameron, che ha visto i voti favorevoli al leave prevalere con il 51,9% l’iter parlamentare e istituzionale che ci ha portati fino alla situazione odierna è stato un susseguirsi di colpi di scena degni di una pièce surreale o forse riconducibili a un’opera del teatro dell’assurdo.

Lo spettacolo è stato imbarazzante sia sotto il governo presieduto da Theresa May sia – se possibile, ancora di più – quando a Downing street è arrivato l’attuale primo ministro Boris Johnson. E se il percorso che ha condotto il Regno Unito a un passo dall’uscita dall’Ue viene da lontano e si è nutrito negli anni di diffidenza insulare, di mai sopito orgoglio imperiale, del rapporto profondo che lega i britannici agli Stati Uniti d’America, delle seduzioni della finanza mondiale, non senza una dose di confusione indotta dall’illusione di trasparenza di un’economia globalizzata, un libro, L’ultima Londra di Iain Sinclair, pubblicato in Italia alla fine del 2018 da Il Saggiatore, ci dice che la città leggendaria e capace di affascinare l’immaginario di molti ha abbandonato se stessa e il suo passato da tempo, in qualunque modo vada poi la vicenda della Brexit.

Sinclair percorre Londra a piedi, ne attraversa i quartieri, si ferma ora ad Hakney, poi ad Hampstead, quindi si sposta più a sud, e con lo sguardo dello scrittore e del flâneur ne testimonia la trasformazione irrimediabile, rendendo omaggio a W.G. Sebald, maestro della letteratura della memoria, e a Will Self, narratore londinese capace di combinare nelle sue opere registri cronachistici e stili più surreali e immaginifici. La Londra che ci viene raccontata, il cui punto di non ritorno è segnato dalle Olimpiadi del 2012, è un’anticipazione del nostro futuro. Il profilo della City, i grandi grattacieli a vetri che ne segnano lo skyline e i “palazzi nuovi e gli ospedali pediatrici riconvertiti, le scuole e i bagni diurni traditi, parlano di uniformità” e fanno della città un “sobborgo di qualunque altro luogo: Città del Messico, Istanbul, Atene. Gli stessi 25 centri commerciali. La stessa alienazione governata. La Babele delle lingue fraintese”. Citando le parole scritte dal diarista John Evelyn in occasione di un’altra grande trasformazione subita dalla città, quella dell’incendio del 1666, Sinclair sembra volerci dire: “Londra era, ma non è più”.

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Quella in mostra nelle pagine di Sinclair è una città sterminata che, scossa da una pressione centrifuga, ha invaso le terre che si trovano a sud, fino al mare, al punto da realizzare la profezia che lo scrittore Ford Madox Ford aveva inserito in un suo saggio del 1909: “Tutta l’Inghilterra sudorientale è Londra”. Peraltro, il fenomeno che caratterizza la capitale britannica avviene anche in molte altre città, che via via stanno diventando ologrammi intercambiabili l’una dell’altra, ci fa notare non senza fare ricorso a una buona dose di ironia, che forse ha la funzione di lenire la ferita della perdita: “Se sovrapponevo il circuito di Hackney che percorrevo a piedi ogni mattina a Berlino, Parigi, Liegi, Seattle, Vancouver, Guadalajara, non mi sembrava mai di essere lontanissimo dalla gravità di Londra. A Madrid c’era lo stesso sacco a pelo davanti allo stesso McDonald’s. E giuro che ci dormiva lo stesso uomo”.

Il percorso cede alla nostalgia quando l’autore si dirige verso Whitechapel, nell’East End, faticando a ritrovare l’identità di vie storicamente abitate da persone di estrazione popolare, che all’inizio del secolo scorso avevano ospitato la comunità ebraica e che negli ultimi decenni hanno invece attirato in prevalenza gruppi di immigrati provenienti dal Bangladesh.

La scrittura di quest’opera, definibile come un romanzo ibrido, richiama i modi del reportage narrativo e, se ci è consentita la definizione, del saggio asistematico e sentimentale, ed è segnata da un’attenzione quasi paranoica per i dettagli e da un accumulo di elementi significativi, che tendono ad esasperare il punto di vista scelto, nonché da un’intensità letteraria capace di deliziare i lettori più raffinati. Colpiscono e restano nella memoria certe descrizioni, con cui forse Sinclair vuole restituirci la Londra profonda, la città eterna e immutabile, a dispetto della metamorfosi, come quando ci fa partecipi degli incontri notturni, non programmati, ma probabilmente non casuali, ai margini del parco di Hampstead, tra “infermiere (del Royal Free Hospital) esauste, prostitute in pausa e tossici alla deriva” che “abbandonano gli schemi comportamentali codificati del loro lavoro in favore di scambi socievoli davanti a un tè caldo e dolce e fette imburrate”.

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