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Solo l’oro sembra “immune” al virus, per le altre materie prime finisce un ciclo

(Shutterstock)

Mentre l’esplosione del coronavirus paralizza l’Asia e si diffonde negli Stati Uniti e in Europa, il mondo sta vedendo il valore delle materie prime andare a picco come non accadeva dai tempi della Grande recessione. Fa eccezione il bene più cercato nei momenti di crisi: l’oro.

A dirlo, tra gli altri, è Goldman Sachs. Lo sconquassamento dell’economia cinese ha provocato uno shock nella domanda di petrolio in Cina di circa quattro milioni di barili al giorno, oltre un quarto del consumo totale. Lo scrive Jeffrey Currie, esperto di materie prime per la banca d’affari statunitense, in un report del 28 febbraio: una cifra non molto distante dai cinque milioni di barili al giorno persi durante la crisi finanziaria del 2008-2009.

Con nuovi casi in aumento (pur non esponenziale) in tutti Paesi avanzati, è probabile che l’impatto della pandemia si diffonderà con più forza attraverso l’Atlantico nel prossimo mese, mettendo ancora di più in ginocchio il settore turistico, dell’intrattenimento e dei trasporti.

Ma il mercato che più di tutti è diventato dipendente dalla Cina, nel XXI secolo, è quello delle materie prime. Per quanto riguarda il petrolio, i numeri fanno paura perché vanno ben al di là delle più nefaste previsioni all’inizio della pandemia. Sulla base dell’esperienza della Sars, Goldman Sachs aveva stimato a fine gennaio un taglio dei consumi di “appena” 260.000 barili al giorno, mentre S&P Global Platts Analytics avvertiva che si sarebbero persi 700-800.000 barili al giorno.

Il danno è dunque molto più grande che nel 2003, anche perché da allora la crescita economica si è fortemente concentrata in Cina, nel Sud-est asiatico e nell’Asia meridionale, col risultato che Pechino ha superato di gran lunga gli Stati Uniti nella classifica degli importatori di greggio, diventando prima al mondo con una quota del 20 per cento globale contro il 13 per cento degli americani. Anche nei consumi di jet fuel, vale a dire il carburante per aerei, oggi la Cina ha una posizione centrale; minori spostamenti in aereo si traducono in contraccolpi pesanti: certo positivi per l’ambiente, meno per il comparto energetico.

Il punto è che se il gigante asiatico si ferma si fermano i produttori di tutto il mondo. E il prezzo del petrolio è al ribasso più forte degli ultimi tre decenni per quanto riguarda i primi due mesi dell’anno.  Il West Texas Intermediate (WTI), anche noto come Texas Light Sweet, un tipo di petrolio prodotto in Texas e utilizzato come benchmark nel prezzo del petrolio, è ormai stabile a meno di 50 dollari per ogni barile, frenato da un lato dalla sempre ormai sempre più abbondante offerta americana (leggi: fracking) e dall’altro dalla crisi di consumo dei cinesi.

Le “supercisterne” di Pechino hanno una capienza impressionante in termini assoluti, ma le scorte di petrolio crescono ogni giorno a causa del mancato utilizzo, e molte raffinerie hanno già raggiunto i loro limiti di stoccaggio. Questo sta già provocando una riduzione delle quantità di greggio trattato dalla superpotenza asiatica: col risultato che le vendite di carichi di petrolio dall’America Latina e dall’Africa in Cina sono rallentate drasticamente. Intere megalopoli cinesi sono chiuse al traffico, i collegamenti tra numerosi centri industriali sono interrotti, le navi non partono più e così le raffinerie immagazzinano prodotti petroliferi invenduti come benzina e altri carburanti.

Inoltre, circa il 45% delle rotte di linea per nave porta-container da Asia a Europa sono state cancellate nelle quattro settimane successive alle vacanze di Capodanno lunare a fine gennaio. Nel 2019 la Cina ha registrato il tasso di crescita più basso da trent’anni, appena il 6,1%, e c’è la concreta possibilità di un ulteriore e più vistoso rallentamento per quest’anno. È, più in generale, in atto una crisi del cosiddetto “liberoscambismo” su scala planetaria che non si vedeva, per l’appunto, dai tempi della crisi dei subprime americani trasmessa al resto del globo dodici anni fa.

L’Opec sta correndo ai ripari, valutando sempre più seriamente la possibilità di tagliare la produzione di greggio, per fronteggiare lo shock di domanda. La Libia intanto ha interrotto le sue spedizioni, l’Iran è in preda ai contagi ed è tagliato fuori dai mercati internazionali, mentre dal Kazakistan le forniture per la Cina risultano sospese.

Eppure il 2020 era iniziato con il Brent schizzato fin sopra i 70 dollari durante le tensioni tra Stati Uniti e Iran, dopo che un raid del Pentagono voluto da Trump aveva ucciso, il generalissimo Qassem Souleimani. La speculazione è durata poco perché la gestione controversa del coronavirus da parte dei cinesi sta inducendo gli investitori a prevedere una flessione dell’economia destinata a durare per mesi, e dunque ad accanirsi sui titoli legati al comparto petrolifero, minerario e dei metalli.

Pechino consuma la metà del rame mondiale e il coronavirus ne ha fatto scivolare il prezzo ai minimi da due mesi al London Stock Exchange; consuma il 60% del nickel – soprattutto nell’industria siderurgica – e il prezzo di questo è sceso a livelli che non si vedevano dall’estate scorsa.  Il rallentamento delle attività manifatturiere e delle costruzioni probabilmente farà abbassare i prezzi dell’export di acciaio, già sotto accusa per dumping, mettendo ulteriore pressione sui produttori europei e occidentali.

Per quanto riguarda il petrolio e altri prodotti energetici, spiegano da Goldman Sachs, qualsiasi interruzione della domanda sarà considerata irrecuperabile per quest’anno, mentre il calo dei consumi di altre materie prime (come acciaio e alluminio) potrebbe essere soltanto posticipato. Sulla volatilità crescente dei prezzi delle materie prime nei prossimi giorni pesano anche le aspettative di stimolo monetario e fiscale da parte della Fed americana, da un lato, e dalla banca centrale di Pechino dall’altro, che potrebbero trasformare una domanda perduta in una domanda differita.

L’oro, il bene rifugio per antonomasia, d’altra parte sta dimostrando di avere una vera e propria “immunità al virus” e sta facendo meglio di altri beni simili come lo yen giapponese o il franco svizzero. Nei giorni scorsi, in pieno panico globale da coronavirus e con le Borse in calo, c’era stata una “misteriosa” perdita di questo materiale prezioso per oltre il 3%. Ma incidevano nel calo due fattori: la vendita di contratti futures da parte di soggetti finanziari in cerca di liquidità rapida per coprire le perdite che stavano patendo nel comparto equities, da un lato, e dall’altro la delusione per una Fed che aveva soltanto rimandato il taglio dei tassi di interesse.

Sul medio periodo il quadro che appare è molto diverso: il prezzo dell’oro – unico tra gli asset finanziari – è in crescita poderosa già da inizio dicembre. Come se qualcuno avesse presagito la crisi in atto oggi. Anche perché nel frattempo, appoggiandosi alla decisione della Bce dello scorso luglio di offrire alle Banche centrali dell’eurozona la possibilità di vendere e ricomprare a piacimento le proprie riserve auree, la Banca centrale olandese e la Bundesbank hanno già rimpatriato tutto l’oro che detenevano fra New York, Parigi e Londra, con due anni di anticipo rispetto ai programmi.  Pare che anche le Banche centrali di Pechino e di Mosca vogliano ammassare oro in tempi record.

Alla luce di questi sviluppi, in molti cominciano a leggere queste decisioni come il presagio che si potrebbe tornare a parlare – come avviene già in alcuni ambienti economici “eterodossi” (anche vicini a Trump) di una versione aggiornata del vecchio Gold Standard.

Quel che è certo è che, indipendentemente da quando finirà il coronavirus, riattivare le catene dell’offerta globale non sarà un gioco da ragazzi e si dovrà tenere conto di limitazioni e asset non più soltanto finanziari, ma materiali nel senso più novecentesco del termine.

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