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La Fase 2 vista dal decano degli imprenditori italiani: Marino Golinelli, classe 1920

Marino Golinelli (Imagoeconomica)

L’11 ottobre 2020, l’imprenditore e filantropo Marino Golinelli compirà cent’anni. Un secolo speso avviando a Bologna, da zero, l’azienda farmaceutica Alfasigma, ora oltre 1 miliardo di fatturato. Altra medaglia al valore: la creazione dell’Opificio Golinelli, cittadella del sapere alle porte di Bologna. L’”intelligenza di esserci” è il motto dell’Opificio, un ecosistema che mette insieme formazione, innovazione e impresa, scienze ed arti, incubando start up. Per questo mondo, Golinelli ha già messo a disposizione 90 milioni di euro, “e ne darò molti di più”, precisa durante il nostro incontro skype. Perché Golinelli, origini contadine,  modenese, laurea in Chimica e piglio imprenditoriale, crede nei giovani, nel “lavoro nobile dell’imparare”, dice, e nelle idee che ne scaturiscono.

Con l’Opificio fate in modo che le  idee si concretizzino.

Se le start up funzionano i benefici andranno a loro ma anche alla Fondazione che deve proiettarsi nel futuro. Sa, io  farò una bella donazione, però bisogna guardare anche oltre.

Così oltre che avete messo in campo il Progetto 2065

Ricordo che ero nell’Università di Bologna e mi  avevano proposto di fare qualcosa sui farmaci del futuro. In quel momento mi chiesi: e se pensassimo a come sarà il mondo fra 50 anni, nel 2065? Così abbiamo progettato le “Borse di Studio imprevedibili” per anticipare il futuro anziché rincorrerlo.

Fondò Alfa (poi Alfasigma) nel 1948. Ora si rievoca il dopoguerra e il connesso spirito di ricostruzione. Lei che c’era, trova analogie?

Ormai sono uno dei pochi rimasti ad avere vissuto la Seconda Guerra Mondiale. La memoria dei fatti di allora mi dà la consapevolezza necessaria per attraversare una fase critica come questa.  Nel secondo dopoguerra ci fu la rapida trasformazione dell’Italia da paese agricolo a industrializzato, un paese che in pochi anni riuscì a inserirsi in un contesto europeo e più ampiamente internazionale. Le difficoltà enormi e la povertà generata dalla guerra riuscirono a imprimere una spinta fortissima allo spirito imprenditoriale degli Italiani, alla loro capacità di “fare”.  L’analogia fra quel periodo, storicamente così lontano e diverso, è molto semplice e la riassumerei in una frase: abbiamo saputo superare, allora, un trauma ben più grande, dubito della altrettanto adeguata risposta oggi del Paese.

Da dove nascono i dubbi?

Mancano gli schemi intellettuali della comprensione. Capisco che sia difficile avere una visione, ma chi ha responsabilità istituzionali deve pur averla.

La burocrazia sta rallentando molte decisioni. Tutti reclamano “sburocratizzazione”, “sministerializzazione”. Si risponde creando commissioni su commissioni. Un suo commento.

Non posso approvare quella che mi pare una evidente incapacità decisionale. Oggi manca una visione lungimirante, strategica e complessiva degli effettivi bisogni dell’Italia, considerando l’Italia come un sistema. Chi mi conosce sa quanto io stia sempre dalla parte delle risposte veloci e della capacità immediata di reagire alle difficoltà e di adeguarsi al cambiamento. Quanto all’annoso problema della burocrazia italiana, sono 50 anni che sento parlare di cambiare il modello burocratico, ma nessuno hai mai avuto il coraggio di farlo. Certamente occorre progettare un modello più snello del nostro apparato amministrativo e gestionale, a tutti i livelli, dal centro alle periferie. Tutti sanno che i tempi dei processi decisionali, oggi, non corrispondono a quelli della nostra burocrazia, bisogna elasticizzarsi. La pandemia ha reso ancora più evidente un problema che affligge l’Italia da moltissimi anni. È un’occasione per ripensare completamente l’apparato amministrativo e dirò di più: occorre inserire anche la burocrazia in una visione complessiva e sistematica del futuro.

Esattamente un anno fa mi disse: – Noi dobbiamo “essere in”, dobbiamo essere nel fare e pensare alla società di domani, a quella del 2100 -. La pandemia sta forse cambiando il suo modo di vedere la società di domani?

Assolutamente no. Resta sempre valida la mia visione, quella che ho condensato nel pay-off della Fondazione che porta il mio nome: l’intelligenza di esserci. Significa avere la lungimiranza, la prontezza, il coraggio di essere sempre presenti, con la testa e con il cuore, in quei luoghi, quei momenti, quelle occasioni che a volte sono speciali e uniche, a volte sono in apparenza del tutto normali, ma in ogni caso sono momenti in cui accade qualcosa che prefigura un cambiamento, un capovolgimento di vedute, una nuova scoperta. Esserci con intelligenza significa non solo adeguarsi al cambiamento, ma indirizzarlo, trasformarlo in una opportunità reale. Ma tutto questo non vuol dire niente se non si ha una visione onnicomprensiva della cultura e della conoscenza: innovazione tecnologica e sapere umanistico, arte e scienza devono essere sempre congiunti affinché l’intero sistema educativo, dai nidi alle università, possa stimolare l’intelligenza e la creatività degli studenti per rispondere ai bisogni del paese e riversarsi positivamente sulla società, facendo di loro i protagonisti attivi del nostro domani.

Dati gli accadimenti, cosa le dà fiducia?

Sono sempre i giovani a darmi fiducia. È sempre ai giovani che rivolgo il mio sguardo quando si parla di fiducia. Ai giovani dico sempre “Non abbiate paura”. Solo la conoscenza, la cultura, la coltivazione delle passioni, insieme alla capacità di interpretare gli errori, possono darci la forza necessaria a dominare l’imprevedibilità del futuro. È questo che cerco di trasmettere ai giovani per restituire loro la fiducia che mi ispirano.

Una ricerca dell’Istituto “Toniolo” svela che i giovani italiani sono i più pessimisti d’Europa sul dopo pandemia.  Il 35% rinuncerà a vivere in autonomia, il 32% a progetti di convivenza, il 40% a sposarsi, il 29% a cercarsi un lavoro. Possibile che la gioventù sia così rinunciataria?

Non condivido. È evidente, da questi numeri, che i giovani italiani sono più sfiduciati dei loro coetanei in Europa. Ma è responsabilità nostra, non loro, se si trovano in questa situazione. I giovani perdono la fiducia se sono lasciati soli, se le istituzioni preposte non colgono la necessità di investire nella loro educazione e innovare adeguatamente l’intero sistema scolastico e formativo, dai nidi all’università, per adeguarlo alla evoluzione costante della società. Ho sempre pensato che fosse mio dovere restituire alla società ciò che avevo ricevuto. Ma il mio non è senso del dovere. Alla parola “dovere” preferisco l’espressione “responsabilità sociale”. Ebbene, credo che questa “responsabilità sociale” non debba essere solo mia, ma di tutti noi adulti, e che debba essere rivolta soprattutto ai giovani. A maggior ragione se vediamo che si trovano in queste condizioni di sfiducia. La Fondazione Golinelli opera affinché i giovani – dalla prima infanzia all’università – possano esprimere al meglio le loro potenzialità e trovare dentro di loro i talenti necessari ad affrontare con passione e impegno il futuro. In questa fase emergenziale, i nostri programmi di didattica e formazione sono stati adeguati rapidamente ai nuovi bisogni formativi, per sostenere la scuola, gli insegnanti, gli studenti e le studentesse, offrendo loro programmi e attività formative on-line. Ecco cosa cerchiamo di fare, in questo momento come facciamo da sempre, ed ecco cosa dovrebbero fare tutte le istituzioni preposte.

Le istituzioni preposte, le scuole, sono però chiuse e progettano di aprire al massimo a settembre…

Lo interpreto come ignoranza, mancanza di capacità di capire. E’ nella scuola che si impara la Bellezza, che si scopre l’identità dell’uomo. Come dicevo, è nobile il lavoro dell’imparare. A scuola si dovrebbe apprendere il senso del merito, dell’alzare l’asticella per spingersi oltre e sapere. A scuola si coltiva e si suscita la curiosità. Vedo che non sempre la scuola è all’altezza delle responsabilità per il futuro.

Tante aree e settori d’Italia fremono per ripartire. C’è chi ha letto questo “fremere” come espressione di una necessità e di un’etica del lavoro. Altri bollano tale spinta come accondiscendenza a una “religione del profitto”. Lei cosa pensa?

Condivido certamente la necessità di ripartire al più presto, ma per farlo bene e senza rischi occorre seguire il modello virtuoso adottato da alcune importanti realtà del mondo imprenditoriale e industriale, che si preoccupano di tutelare, in primis, la salute e il benessere dei dipendenti e di tutti i collaboratori e le collaboratrici.

L’imprenditore crea e offre lavoro, operazione già di per sé socialmente rilevante. Ma d’ora in avanti non pensa che questo veramente non basti, ovvero che l’imprenditore dovrà sempre più aprirsi al mondo che lo circonda? La solidarietà è la chiave del futuro? Sarà il “Modello Golinelli” la chiave del futuro?

Più che solidarietà credo si debba parlare, come dicevo, di “responsabilità sociale”, e questa va collegata al fare impresa, oggi più che mai, e sempre di più in futuro. L’imprenditore deve vedere l’azienda come inserita in un contesto ambientale, sociale e umano, che sta all’imprenditore difendere e tutelare. Occorrono competenze, in azienda, che operino sempre più in questa direzione.

Come si trova in questo tempo sospeso fra reale e surreale?

A essere sincero, non ci trovo nulla di “surreale”. Stiamo assistendo a uno dei tanti casi di rivincita della natura, che questa volta è rappresentata dal virus, nell’eterna lotta fra l’uomo e la natura. Ogni cambiamento epocale è stato caratterizzato da fasi di rottura e accelerazione, collegati spesso a epidemie o pandemie.

Qual è stata la prima riflessione che ha fatto quando si è capito che lepidemia era una pandemia?

Ho pensato che non c’era nulla di cui stupirsi. Da anni gli scienziati ripetevano che saremmo andati incontro a una pandemia. Da anni i virologi ci mettevano in guardia dal pensare che l’umanità avesse chiuso con il problema delle malattie infettive. Al contrario, la probabilità di una infezione virale generalizzata era alta, con una popolazione mondiale in continua crescita e con l’altissima densità di abitanti nelle megalopoli e nei grandi agglomerati urbani. Era solo questione di tempo. Infatti, la pandemia è arrivata. Poi sia, i virus li ho studiati, so come attaccano le cellule. Questo ha trovato una strada diversa per entrare.

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