A Rimini, al Meeting di Comunione e liberazione, nella sua prima apparizione di alto profilo da quando ha lasciato la presidenza della Banca Centrale Europea, Mario Draghi è entrato come sempre da vero carro armato nel dibattito italiano e continentale. Ha ricordato ai governi la differenza tra debito “buono” e debito “cattivo”, l’importanza della trasparenza nelle azioni, e della responsabilità per preservare la solidarietà nell’Unione. Gli stimoli massicci che sono stati messi in campo nella pandemia del coronavirus sono fondamentali, ha spiegato, ma vanno implementati in politiche economiche “credibili”, o si rischierà un’altra crisi dei debiti sovrani, come quella catastrofica di dieci anni fa.
Sono concetti in parte già espressi in un importante articolo d’opinione pubblicato sul Financial Times a marzo, quelli di Draghi. Con la differenza che allora eravamo agli esordi della crisi sanitaria, mentre oggi ci troviamo immersi fino al collo con i suoi effetti economici. Si è realizzato, in parte, il cambio di mentalità auspicato in primavera: “Al di là delle singole agende nazionali, la direzione della risposta è stata corretta. Molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia sono state sospese per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni”. E tuttavia si percepisce, a cinque mesi di distanza, il rammarico di Draghi per una Unione Europea che ha trovato ancora una volta la via dell’interventismo soltanto tramite negoziati, anziché spontaneamente, e divisa tra interessi iper-nazionalistici anziché essere guidata dalla forza delle sue istituzioni.
Tuttavia – sia pur con limiti evidenti, ritardi e spaccature che dureranno – quell’intervento pragmatico c’è stato: i parametri di Maastricht sono stati sospesi. E Draghi non solo plaude la decisione ma invita a svecchiare l’orizzonte ideologico. Poiché la ricostruzione dell’Europa post-Covid sarà “inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo”. In questo senso, ha elogiato l’accordo dei ministri delle finanze per l’emissione di un debito congiunto per sostenere la ripresa. Ma questo debito sarà sostenibile – continuerà cioè a essere sottoscritto dalle istituzioni europee, dai risparmiatori e dai mercati finanziari – solo “se utilizzato a fini produttivi”, vale a dire infrastrutture, ricerca, formazione.
I commenti di Draghi al convegno cattolico (qui il testo integrale del suo intervento) arrivano mentre i governi a livello globale – preoccupati per l’aumento del loro debito – discutono se estendere o meno il loro sostegno alla crisi e stanno cercando di trovare un equilibrio tra la prevenzione della disoccupazione di massa (che in alcuni casi è già realtà) e la ristrutturazione delle loro economie per il mondo post-pandemico. Una delle parole più ripetute da Draghi è “giovani”. Sui quali pende, a suo dire, come una spada di Damocle il costo salatissimo della guerra al virus. “I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire”, ha detto, ma ai giovani bisogna dare di più perché “i sussidi finiranno” e se la spesa a debito non sarà servita a formarli professionalmente, a creare nuove opportunità, saranno loro a essere le vittime sacrificali.
Ancora una volta l’ex presidente della Bce riesce a monopolizzare l’attenzione avventurandosi fuori dall’ortodossia economica e al tempo stesso rassicurando con il suo buon senso. Proprio come fece l’anno scorso, quando, nella sua ultima audizione al Parlamento europeo, dichiarò che “idee nuove” come la Modern Monetary Theory “vanno prese in considerazione” e che l’attuale sistema di politica monetaria probabilmente non è il modo migliore per distribuire liquidità all’economia reale e affrontare il cambiamento climatico e le disuguaglianze. Per molti neopopulisti fu una dichiarazione quasi epocale, perché faceva uscire dalla nicchia e dalla derisione i fautori – talvolta dogmatici come i loro avversari – della spesa a debito per sostenere programmi di piena occupazione senza timori per l’inflazione o effetti distorsivi.
Al tempo stesso, i più saggi tra i nemici di Draghi sanno che le sue aperture non significano necessariamente cambi di paradigma radicali da parte della Bce o dell’Eurozona, ma piuttosto l’ennesima prova della capacità di adattamento delle istituzioni europee a un contesto di crisi, sia pur tra mille passi falsi e momenti divisivi. Draghi sostiene da anni l’adozione di una cornice di pensiero meno ossessionata dai livelli di debito: ma il suo appello è rivolto all’Eurozona, non ai singoli paesi. “L’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era divenuta da tempo evidente”, ha spiegato parlando delle regole decise un quarto di secolo fa, ma si è lasciato “per inerzia, per timidezza e per interesse, che questa critica precisa e giustificata divenisse, nel messaggio populista, una critica contro tutto l’ordine esistente”.
Un sovranismo europeo, dunque? Sicuramente nuove forme di protezione e di protezionismo. Non è un caso che anche questa volta Draghi citi l’economista John Maynard Keynes, ricordandoci che “quando i fatti cambiano, io cambio idea”. Ma il cambio di idee auspicato da Mario Draghi potrebbe rappresentare la possibilità, rischiosa per molti no-Euro, che la Bce faccia proprie le loro istanze sulla spesa pubblica e la flessibilità di bilancio per sostenere occupazione e domanda interna. Prosciugando, così, il proverbiale “brodo di coltura” dei nuovi movimenti anti-sistema.
Come ha scritto il giornalista economico Ferdinando Giugliano, il discorso di Mario Draghi unisce keynesismo a liberismo classico: spiega che l’intervento straordinario dei governi è giustificato, ma sarà sostenibile soltanto se creerà “debito buono”. Al contrario, se verrà utilizzato per fini “improduttivi”, sarà considerato “debito cattivo” e il responso del mercato sarà impietoso. Che ruolo dovrà avere in tutto questo la Bce? Su questo Draghi non si sbilancia. “I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità”, spiega.
Da quando è tornato in Italia l’ex capo della Bce ha sempre mantenuto un basso profilo, anche se viene regolarmente citato dalla stampa come un potenziale primo ministro di un governo di larghe intese, o addirittura come capo dello Stato, se le cose nella Penisola dovessero precipitare. Il suo nome è stato evocato a più riprese persino dall’opposizione, che ha con l’Europa un rapporto a dir poco travagliato. Per il momento, Draghi è stato nominato in un organismo vaticano che fornisce consulenza a Papa Francesco in materia sociale ed economica.
L’Italia era già in recessione prima che il coronavirus colpisse, e il suo debito esplosivo avrà bisogno di difensori autorevoli, con solidi agganci internazionali. Sarebbe il massimo se fossero anche difensori popolari. Ma questo sembra essere in contrasto con la possibilità di dire la verità agli elettori. “Per anni, una forma di egoismo collettivo ha portato i governi a deviare l’attenzione e le risorse verso iniziative che hanno generato ritorni politici garantiti e immediati”, ha detto Draghi. “Questo non è più accettabile”.
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