Articolo apparso sul numero di ottobre 2020 di Forbes. Abbonati
Tomaso Mainini, milanese, classe 1973, senior managing director italiano di PageGroup, parla al telefono con Forbes da Forte dei Marmi: “Mi avevano avvertito di una vostra chiamata”, dice in un venerdì di inizio settembre. Al Forte, però, Mainini non è a riposo; come molti suoi colleghi sta facendo lo smart working, il lavoro agile e flessibile, che permette di svolgere le proprie funzioni a distanza senza recarsi fisicamente in ufficio. Oggi quasi tutti ne parlano come se fosse l’avvenire dell’umanità. Tutta colpa della pandemia di Covid-19 che, nella primavera scorsa, ha costretto milioni di italiani a restare tappati in casa per evitare il dilagare dei contagi. E li ha costretti pure a lavorare a distanza, senza più mettere piede in ufficio per settimane intere. Nelle sedi italiane di PageGroup, nota multinazionale specializzata nella selezione del personale, lo smart working lo praticano però da anni, non per emergenza ma per scelta. La quotidianità dei suoi dipendenti e dei collaboratori è da tempo improntata a logiche ben diverse, molto più agili di quelle tradizionali. E lo è in buona parte per merito di Mainini.
Lui lavora nel gruppo da oltre vent’anni, da quando rinunciò dopo la laurea a una carriera sicura nell’azienda di famiglia per andare al servizio di una multinazionale del recruiting, ancora poco conosciuta nel nostro Paese. Decise di correre qualche rischio ma volle avere l’opportunità di guardare al mondo professionale con un’ottica ben diversa, più aperta e globalizzata. Prima Mainini venne assunto come semplice stagista a Michael Page, uno dei brand del gruppo. Poi ha saputo mettersi alle spalle un lungo cursus honorum divenendo prima manager, poi director e managing director della stessa società. Infine, quattro anni fa, il passaggio alla guida di tutte le attività italiane di PageGroup, che opera attraverso tre marchi: Page Personnel, Page Executive e il già citato Michael Page; tre realtà “sinergiche” ma distinte, che ricercano e selezionano ciascuna diverse tipologie di candidati e di professionisti, a livelli differenti da profili junior, a middle e top management. Ed è proprio dalla plancia di comando del gruppo in Italia che Mainini ha cominciato a favorire l’adozione dello smart working quando nessuno avrebbe mai immaginato cosa sarebbe accaduto negli anni successivi. “Abbiamo scelto di mettere al centro le persone”, dichiara il manager, che aggiunge: “Detta così, questa mia affermazione può sembrare retorica allo stato puro; ma, a ben guardare, ha un significato preciso”. Quale? “Mettere al centro le persone significa misurare il loro valore in base alle performance che riescono a realizzare in campo professionale, in base al reale contributo che possono dare all’azienda, e non a seconda delle ore che trascorrono in ufficio”.
È proprio per questa ragione che, da qualche anno, in PageGroup gli orari non sono più rigidamente codificati nel contratto di lavoro ma sono diventati appunto flessibili. La routine casa-ufficio-casa ha lasciato il posto a un modo di operare più agile dove a ogni risorsa viene lasciata maggiore autonomia nella gestione della propria giornata, seppur all’interno di regole predeterminate e concordate con i team e i manager di riferimento. “Il concetto di trust è alla base, e i risultati ci stanno dando ragione: passione, maggiore produttività, maggior senso di responsabilità, senso di appartenenza all’azienda e orgoglio di farne parte sono notevolmente aumentati”.
Ma non è soltanto con lo smart working che l’azienda ha cercato di innovare le proprie politiche in materia di risorse umane. Mettere al centro le persone per Mainini ha significato infatti anche favorire l’integrazione dell’inclusione, cercando di creare un ambiente di lavoro che consente alle persone di esprimere al meglio le proprie potenzialità, indipendentemente dagli orientamenti privati e individuali o dalla situazione familiare personale.
“Il 52% del nostro management è composto da donne, il che ci contraddistingue rispetto ad altre realtà del settore. Ovviamente, tutte le donne che abbiamo scelto non sono state promosse per il loro status di genere, ma semplicemente perché sono brave e perché se lo meritano”.
Ma quali sono i risultati di questa politica di gestione delle risorse umane? Basta passare in rassegna qualche numero dell’azienda per capire che l’esperimento è pienamente riuscito. I ricavi di PageGroup nel nostro Paese, da quando Mainini ne ha assunto la guida, aumentano infatti con tassi a due cifre, cioè a un ritmo superiore al 10% all’anno. In meno di un quinquennio, il personale è pressoché raddoppiato, passando da 130 a circa 300 unità. La crescita non è però destinata ad arrestarsi, visto che il manager non fa mistero di voler raggiungere un organico di 500 unità entro il 2025. Inoltre, andando oltre la fredda logica dei numeri, c’è anche un aspetto qualitativo da sottolineare. In un settore come quello del recruiting, caratterizzato da un elevato turnover e un alto tasso di ricambio generazionale dentro le aziende di selezione, negli ultimi anni in PageGroup sono aumentati invece i professionisti con profili che un tempo erano più rari: ci sono cioè molte più persone con figli che devono gestire i loro impegni familiari e riescono a conciliarli con le esigenze della vita lavorativa, più lavoratori e manager che hanno un’anzianità ultradecennale all’interno dell’azienda e scelgono di restarci proprio perché sentono appagate le loro aspirazioni. “Tradizionalmente abbiamo sempre preferito allevare le competenze all’interno del nostro gruppo”, dice ancora Mainini, “ma, negli ultimi anni, abbiamo cercato di diventare attrattivi anche per risorse che arrivano dall’esterno”.
Certo, non è facile competere su questo fronte con i big statunitensi della tecnologia, che in tutto il mondo hanno tradizionalmente grande appeal tra i lavoratori dotati di maggiore talento. Per affrontare la sfida, però, il senior managing director di PageGroup Italia ha fatto quello che fece oltre vent’anni fa, quando iniziò la carriera: ha cercato di essere lungimirante e di capire in anticipo le grandi trasformazioni del mondo del lavoro. Agli inizi del millennio, infatti, in Italia il settore del recruiting era praticamente all’età della pietra. In pochi, anche tra gli stessi imprenditori, conoscevano le società di selezione del personale. “Ora posso dire che il processo di reclutamento, anche tra le piccole e medie aziende, è molto più moderno e strutturato, benché ci sia ancora un po’ strada da compiere rispetto ad altri Paesi”. Per colmare questo gap, molto probabilmente, c’è una via maestra: mettere al centro le persone, i loro bisogni e il loro orientamento ai risultati.
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