a cura di Federico Manfredi dello Studio Legale Trifirò & Partners
Lo Smart Working è da mesi al centro dell’attenzione mediatica, divenendo materia di discussione pressoché trasversale a tutti gli ambiti industriali e professionali del Paese. Ciascuno ha avuto occasione di sperimentare e giudicare in prima persona tali nuove modalità di lavoro più o meno smart.
In questi giorni, tuttavia, si sta imponendo nel mercato l’esigenza di un nuovo e più distaccato approccio allo smart working. Infatti, quella che è nata come una misura emergenziale, con la “seconda ondata” pandemica e con le conseguenti disposizioni del Dpcm del 18 ottobre 2020 si sta delineando come una rivoluzione destinata a stabilizzarsi. La differenza sul piano organizzativo-aziendale rispetto alla “prima ondata” è evidente, dovendosi, nell’attuale contesto, non più temporaneamente ovviare ad un lockdown nazionale, bensì implementare stabilmente una vera e propria nuova modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
Le ricadute sulle funzioni aziendali hanno, dunque, tutt’altra e più stabile portata. La posta in gioco investe proprio la nuova normalità che i dipendenti – una volta usciti dagli uffici – troveranno all’interno delle proprie abitazioni. Nuova normalità che – se non regolata e sorvegliata – rischia di ingenerare una spirale di disvalore di lungo periodo, da ricondursi al fatto che le attività dei singoli individui, se non correttamente collocate in una cornice sociale più ampia, rischiano di diventare delle inefficienti sub-ottimizzazioni. Così la scienza comportamentale ha da tempo mostrato che le prestazioni dei singoli dipendenti, ancorché brillanti, se private del contesto e coordinamento lavorativo sino ad allora assicurato dalla presenza in ufficio, possono assumere a livello aggregato un connotato fortemente diseconomico per l’Impresa. Ciò, non solo nell’ottica del risultato economico, ma soprattutto nella valorizzazione delle skills e del know-how del personale. Infatti, per un efficiente apprendimento di questi è essenziale che il personale espleti le proprie mansioni in presenza degli altri dipendenti, secondo le dinamiche dell’ormai noto learning by doing, permettendo così la condivisione e sviluppo fra i lavoratori del patrimonio intellettuale e della conoscenza dell’Impresa. Sono molte le evidenze scientifiche al riguardo fra cui il concetto di Zona di Sviluppo Prossimale ove le abilità individuali incrementano maggiormente in presenza dei colleghi.
Sicché, indipendentemente dalle modalità comunicative, è essenziale per la sopravvivenza dell’Impresa che le nuove modalità di resa della prestazione lavorativa da remoto non si concentrino esclusivamente sulla determinazione ed il controllo dei compiti e degli obbiettivi individuali, ma abbiamo quale scopo primario l’aggregazione degli stessi nei termini più ampi di socialità e sostenibilità. Altrimenti, il rischio è che i lavoratori trovandosi isolati senza idonei processi inter-comunicativi, escano dall’ufficio per trovare nelle proprie abitazioni una Caverna di Platone economicamente ed umanamene insoddisfacente.
La sfida per Imprese e Professionisti è, dunque, saper “traghettare” la socialità e le dinamiche più benefiche delle interazioni intersoggettive fisiche sul nuovo piano digitale. La Direzione e l’HR hanno, da un canto, la responsabilità di costruire per gli smart worker una nuova architettura comportamentale che, sostituendo all’ufficio una nuova socialità, cavalchi la spinta del lavoro digitale per ottenerne il massimo beneficio. Il ruolo del giuslavorista, dall’altro, consente di fondamentale supporto alle decisioni del Management. Nel trasferimento dei rapporti dal piano fisico a quello digitale, l’avvocato può infatti offrire la propria assistenza nella fase di ideazione e attuazione delle nuove strategie di HR, potendo efficacemente superare gli ostacoli e le sfide giuridiche che tali novità portano inevitabilmente con sé.
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