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Perché il più grande patto commerciale del pianeta è diverso da tutti gli altri

L’aggravarsi della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e le pulsioni nazionaliste in reazione al Covid-19 stanno rimodellando le relazioni economiche globali. Insieme a questi sviluppi, quindici paesi hanno firmato il più grande blocco commerciale di sempre, il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep): l’accordo copre quasi un terzo del pil mondiale, oltre 2,2 miliardi di persone e ridefinirà i rapporti all’interno tra 10 paesi del sud-est asiatico, la Corea del Sud, la Cina, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. Alcuni di questi, sorprendentemente, anche rivali politici tra loro.

Il nuovo patto esclude dalla regione a più alta crescita del pianeta l’India e gli Stati Uniti – un tempo visti dai firmatari come partner cruciali, e potrebbe rafforzare la posizione di Pechino come regista nell’area, mettendo la seconda economia mondiale nella posizione di dettare le regole a tutti gli altri, ancora più di quanto faccia adesso.

Secondo uno studio del Peterson Institute, il Rcep contribuirà alla crescita del pil globale di 186 miliardi di dollari l’anno entro il 2030, a fronte di una perdita dovuta alla guerra commerciale stimata intorno i 300 miliardi di dollari nello stesso periodo. Gli scambi fra gli Stati membri dovrebbero aumentare di 428 miliardi di dollari, mentre quelli con i non-membri diminuire di 48 miliardi di dollari. La ricerca è stata realizzata prima del Covid, ma gli autori asseriscono che oggi le prospettive non sono cambiate. Il blocco Rcep sarà più grande e più influente sia dell’accordo Usa-Messico Canada che del Mercato Unico europeo.

La Cina, in questo modo, spera così di controbilanciare gli effetti della parentesi trumpiana e di rafforzare la loro interdipendenza, realizzando fantasie ‘multipolari’ che risalgono agli anni Novanta. “Per la prima volta da che si ha memoria, l’egemone al centro di un grande patto commerciale globale non sono gli Stati Uniti”, ha scritto Felix Salmon di Axios.

Ma bisogna stare attenti a come questo progetto mastodontico verrà spiegato. Si parla del Rcep come di un sicuro successo della Cina almeno dal 2012, quando è stato concepito, e ancora di più oggi, con l’aumento dei dazi protezionistici di Trump che non è riuscito a sortire gli effetti desiderati per Washington: il manifatturiero non è tornato in America e il disavanzo commerciale è aumentato anziché diminuire. Il fatto che Trump abbia ritirato gli Stati Uniti dall’equivalente occidentale del Rcep, il Tpp, e la freddezza del futuro presidente Joe Biden quando si parla di libero scambio inducono molti a pensare che si sta avvicinando il definitivo sorpasso del gigante cinese su quello statunitense, sempre più visto con sospetto da alleati e potenze regionali.

Ma il grande hype che circonda il Rcep è generato, secondo l’economista con base a Pechino Michael Pettis (autore di Trade Wars Are Class Wars), dalla confusione sulle origini e le conseguenze delle grandi asimmetrie nel commercio globale. Sulla carta l’accordo austral-asiatico può apparire come un blocco vasto e imponente, ma il problema è che la maggior parte dei suoi membri registrano grandi surplus commerciali, e il Rcep gli consentirà di continuare “a esportare i loro deficit di domanda interna all’estero”. Senza l’India, l’Australia rimane l’unico membro dell’accordo capace di registrare un importante disavanzo,  e non è ancora chiaro, secondo Pettis, se l’Australia vorrà continuare a interpretare questo ruolo. “Sono i paesi che registrano disavanzi, non surplus commerciali che creano blocchi stabili”, spiega l’economista.

A detta di Pettis, il Rcep potrà funzionare solo se diventerà un blocco in surplus commerciale in cerca di controparti volenterose di registrare immensi disavanzi. Ma chi potrebbero essere queste controparti? I paesi in via di sviluppo sono troppo poveri per assorbire i disavanzi di cui si parla. L’Ue da sola registra grandi surplus commerciali, e ci vorrà tempo prima che i paesi del Sud e dell’Est europa, più deboli, possano sviluppare la domanda interna al punto tale da sopportare un disavanzo collettivo. Inoltre, il rifiuto dell’India a partecipare testimonia la scelta geopolitica di Delhi, che anche in campo economico ormai guarda più a ovest che a est.

A questo punto restano sul tavolo solo gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Canada. Ma se questi paesi continueranno a difendere il proprio export a spese dell’import e dei partner commerciali (magari con la svalutazione della sterlina post-Brexit oppure con il mantenimento, almeno in parte, dell’America First sotto l’amministrazione Biden) la faccenda si complicherà. Il Rcep resta dunque un accordo fragile perché si basa, per ora, su una timida riduzione degli attriti commerciali tra gli Stati membri – molto meno in profondità del Tpp, che è stato nel frattempo riesumato dal Giappone – senza risolvere il problema della sua futura dipendenza dall’Anglosfera.

L’Europa invece “ha tutto da guadagnare da questo tipo di intese, perché con i paesi europei gli asiatici sono molto protezionisti”, spiega l’economista e imprenditore Alberto Forchielli. “Ma l’Ue ha già siglato due accordi fondamentali di libero scambio con il Giappone e con il Vietnam”. E se allora la Cina puntasse a diventare un paese in deficit con il yuan moneta di riserva per i paesi dell’area? Probabilmente riempirebbe di inflazione l’economia di questi ultimi, frenerebbe lo sviluppo delle proprie forze produttive, e la strategia sarebbe percepita come aggressiva sul piano tattico: una replica del modello di dominio statunitense sugli altri membri del Rcep e un innalzamento del tono dello scontro.

Questa considerazione ci riporta alla presenza nel Rcep di paesi su fronti geopolitici opposti. “Una cosa è il commercio, un’altra la sicurezza. Ci sono tanti Stati della regione che amano commerciare con la Cina e sono politicamente rivali. Non c’è mai diretta corrispondenza”, spiega Forchielli, convinto che il Rcep favorisca l’export di produttori emergenti come il Vietnam. La speranza dei filo-cinesi, anche europei, è che il Rcep mostri come sia possibile strutturare un diverso modello che valorizzi tutti, con la forza di un mercato interno di dimensioni immense come quello cinese che agisca da fattore di riequilibrio verso economie in strutturale surplus. Uno strumento strategico che gioca su un altro piano cruciale: quello di trattenere dalla propria parte i paesi che potrebbero raccogliere i frutti della guerra commerciale degli Stati Uniti, con i colossi hi-tech che potrebbero lasciare la Cina e trasferirsi nei vicini.

Forse una questione importante che la Rcep segnala è proprio la doppiezza dei presunti alleati di Pechino, ed è legata allo spettro del decoupling, lo sdoppiamento della globalizzazione: gli altri paesi dell’accordo commerciale vogliono imbrigliare Pechino in una rete che la renda inoffensiva, che rallenti le pratiche economiche predatorie della Repubblica popolare, però al tempo stesso farci affari, senza provocarla, senza avercela dall’altra parte della barricata nella nuova Guerra fredda. Comunque vada, si tratta di un patto davvero inusuale, e con molti aspetti enigmatici.

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