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Finanza, romanzi e città del futuro: la visione etica del mondo di Guido Maria Brera

Guido Maria Brera.
Guido Maria Brera. (Imagoeconomica)

La crisi è sempre un’opportunità sosteneva il fisico Albert Einstein nel sul libro La crisi può essere una vera benedizione, 1955. Lo sa bene Guido Maria Brera che a marzo, durante la piena crisi finanziaria dovuta al Covid, ha saputo gestire una situazione complessa ma, per lui, non imprevedibile. La sua società, Kairos, nel 2020 si è classificata tra i primi gestori di prodotti flessibili, con una performance positiva del + 8,13%. “Finanza è capire il futuro prima degli altri, saper leggere il presente per immaginare ciò che accadrà domani”, è sempre stato il suo mantra.

E anche questa volta è riuscito ad anticipare. Inoltre il suo libro, I diavoli, romanzo che ha per protagonisti due potenti trader di Londra, in primavera scorsa – quando tutti eravamo chiusi nelle nostre case per il lockdown – è diventato una serie di successo su Sky, tradotta in tre lingue e venduta in molti Paesi. E ora è in procinto di pubblicare I diavoli 2, a cui seguirà la seconda stagione della serie. “Ma ci tengo a specificare una cosa, e per favore non la ometta. Per me, umanamente, questa situazione è stata un disastro. Da dieci anni lavoro su progetti no profit che si occupano di assistenza sanitaria a bambini che hanno problemi polmonari. Questo tema è centrale nella mia vita e il virus me l’ha cambiata radicalmente”.

Però come gestore di fondi, ammettiamolo, è riuscito a cogliere una grande opportunità.
Passavo 10 ore al giorno a studiare il caso. La finanza è un panottico, un lavoro fatto di letture, studi, dati. Saper leggere gli eventi è un talento che si coltiva.

Quando ha iniziato a lavorarci?
Già i primi giorni di gennaio, quando in Italia arrivavano notizie di queste strane polmoniti in Cina. Da sempre valuto i rischi potenziali, è la mia attività principale, avevo già lavorato sulla Sars. Qualche volta succede anche che sia tempo buttato.

Stavolta non è stato tempo perso.
Sentivo al telefono ogni giorno analisti cinesi serissimi, che si trovavano chiusi a casa e con l’esercito davanti ai portoni. Contavano le macchine che passavano sotto i loro edifici perché non potevano fare altro. Erano lì per stimare la crescita del Paese e invece si trovavano a contare 14 auto l’ora, in un posto in cui di solito ne passavano 1200. Già allora, a gennaio, il Covid era in Italia.

E ha usato questo vantaggio.
Sì, questo studio mi ha consentito di essere pronto quando il virus è arrivato in Europa. Il 16 marzo è stato il giorno dei minimi dei mercati. Tutti vendevano e noi compravamo. E quel momento ha cambiato l’anno di Kairos.

Non avevate paura di commettere errori?
Certo, avevamo paura ma ho seguito una strategia precisa, osservando segnali fondamentali. In primis, i tanti soldi stampati per tenere viva l’economia. Poi ho fatto un’analisi di tutti quei settori che da questa crisi stavano guadagnando.

Quali erano?
Società nel settore della produzione e distribuzione alimentare e anche i telefonici. L’e-commerce ha visto un’accelerazione di un trend strutturale già in atto, assieme ai temi legati allo smart working. Nulla era da sottovalutare.

A proposito dello smart working ho letto queste sue parole: “Per ogni dipendente che non va in ufficio perderanno lavoro 5 meno qualificati di lui”. Quindi è un bene o un male?
Non esiste il bene e il male. Questa pandemia è stata vigliacca, ha piegato i deboli e ha esaltato i più forti. I business più forti, più resilienti, più innovativi sono emersi con più determinazione. E quelli che erano un po’ in crisi lo sono stati ancora di più.

Torneremo mai alla normalità?
Non torneremo mai alla normalità perché abbiamo capito che la normalità era il problema. Producevamo un bene in un posto, lo spedivamo per farlo assemblare in un altro posto ancora, poi da quel posto questi pezzi giravano il mondo per poi essere depositati in magazzini ancora più lontani. E infine essere spediti ai clienti. Era un consumo di cielo, terra, mare per massimizzare i profitti.

Sono le basi della globalizzazione.
Della globalizzazione spinta. Può piacere perché crea risparmio di costi. Ma si consuma il mondo così.

Un modello che ha reso forti molti settori di mercato.
Sì, ma ci sono costi occulti in termini di sacrifici, diritti sociali dei lavoratori e inquinamento. Magari vai a produrre dove il lavoro costa poco, non ci sono tutele e i diritti sociali sono meno garantiti. Magari vai a produrre in paesi dove inquinare è più facile. Questo sistema si è dimostrato fragile. E la natura stessa si è ribellata.

È insolito sentire queste frasi da chi si occupa di finanza.
Non è che se uno fa finanza non deve combattere la globalizzazione. Ho aperto I diavoli, la serie, con uno speech di David Foster Fallace (un discorso che l’autore tenne ai laureati del Kenyon College nel 2005, ndr). “Questa è l’acqua. La finanza è come l’acqua. Di troppa acqua si muore. E di troppa poca acqua si muore ugualmente”. La finanza nasce come una cinghia di trasmissione per portare soldi a chi ha le idee. In passato chi non aveva soldi ma aveva idee riusciva a realizzarle grazie a questa stupenda cinghia. La finanza era un sogno meraviglioso.

E poi cos’è successo?
Poi come tutte le cose, in modo del tutto inerziale, la finanza è diventata uno strumento con risvolti complessi. Così come la globalizzazione.

Ma la globalizzazione non nasce con intenti negativi.
È stata un esperimento che poggiava le basi su un sogno progressista che poi si è rivelato molto regressivo. Purtroppo funziona solo se tutti i paesi rispettano le stesse regole. Con regole diverse non funziona.

È un pensiero che ha maturato da tempo?
Da 10, 15 anni. È necessario che la politica metta regole più illuminate su tutto il mercato dei capitali. E questo sta già succedendo. Per esempio oggi si parla sempre più di remunerare i manager di aziende non solo per gli utili che fanno, ma anche per i benefici che creano all’indotto. Se la mia azienda fa tanti utili ma inquina, in teoria, dovrei essere pagato di meno. Questa è l’evoluzione, la direzione verso cui dovremmo andare.

L’etica prima del profitto.
Sì.

Mi ricorda il documentario The Social Dilemma: giovani ingegneri e manager che hanno contribuito a far crescere piattaforme social e poi, a un certo punto, si sono fermati a riflettere. Per una questione etica.
Il potere dalla finanza è passato alla tecnofinanza. È una sorta di Diavoli 2. Sono tutti giovani animati da un senso etico forte.

Avrebbero potuto averlo anche prima.
Erano inconsapevoli. Molti meccanismi procedono in maniera inerziale, dietro non c’è un disegno complottista. Anzi, spesso il disegno non esiste. Quelle piattaforme si sono evolute in maniera quasi anarchica fino ad arrivare a essere strumenti di controllo.

Come la finanza.
Esatto, come la finanza che si è evoluta in maniera anarchica e inerziale fino a diventare uno strumento politico.

Di chi è la responsabilità?
Nè della finanza, né della tecnologia. Solo della politica che da 35 anni non ha saputo mettere delle regole.

Lei dalla politica è stato a lungo corteggiato. Perché ha sempre rifiutato?
Penso di essere troppo debole per fare politica.

Non è credibile. Mi dica il vero motivo.
Debole interiormente, non penso di poter sopportare le critiche ingiuste.

Qual è il suo ideale di politica?
La politica giusta è quella che fa scelte impopolari nel breve periodo. Che poi si rivelano giuste nel lungo periodo.

Ricordo un suo tweet a settembre, quando consigliava di andare in lockdown subito.
Proprio così. E ho ricevuto moltissime critiche. Allora avevamo contagi bassissimi rispetto al resto d’Europa, e con dei mini-lockdown avremmo fermato il virus. Saremmo ripartiti prima, meglio degli altri, riaprendo tutto con serenità a Natale. E sì, andando anche a sciare.

Non le è proprio andata giù.
Avremmo fatto tantissime cose con quel piccolo sacrificio. Quella scelta, fatta dopo quasi due mesi, era tardiva.

Di sicuro oggi non è facile governare nel nostro Paese, anche per l’avvento dei populismi. I politici hanno bisogno del consenso per sopravvivere.
Non si può fare politica con un mandato democratico e fare scelte impopolari. Le scelte impopolari hanno la visione lunga ma vieni silurato dopo dieci giorni.

È questa visione che la separa dalla politica?
Sì, non riuscirei mai ad applicare le mie idee. Anche se mi ripeto spesso il detto che la perfezione è
nemica del bene.

Per riuscire servono compromessi.
Io non riuscirei. Capisco i ragazzi del documentario Social Dilemma, stanno scoprendo ora che esiste l’etica. E hanno messo in discussione le piattaforme in cui sono cresciuti e hanno creduto.

Uno di loro dice: “Come fai a svegliarti da Matrix se non sai di essere in Matrix?”
C’è una storia di David Foster Fallace, parla di due giovani pesci in un acquario che incontrano uno più anziano. Questo gli chiede: “Com’è l’acqua oggi?”. Loro proseguono, si guardano e si chiedono: “Che cos’è l’acqua?”. È questo è il contesto in cui viviamo. Wallace lo aveva capito già 10 anni fa.

Quali sono le aziende che dopo la crisi vivranno bene?
Tutti quei business nati già con la digitalizzazione e la potenzialità della rete. Business leggeri, con pochi dipendenti, pochi investimenti materiali e tanti algoritmi dietro. Questi funzioneranno più a lungo rispetto ai vecchi modelli.

Tornando allo smart working, che cosa diventeranno le nostre città?
Abbiamo investito sempre di più nelle città stato, in questi grandi aggregati che oggi scoppiano di inquinamento. Milano si è venduta come una città green e invece è una camera a gas.

Una città ha anche molto altro da dare. O quel modello sta declinando?
L’anno scorso ho scritto un libro su questo argomento, si chiama La fine del tempo. Oggi abbiamo tassi di interesse molto bassi che da una parte danno l’opportunità di comprare casa grazie ai mutui. Dall’altro, liberano molti capitali in cerca di rendimento che vanno a investire in beni rifugio come l’appartamento a Milano.

Quindi i prezzi delle case non si abbasseranno.
Esatto, i prezzi saliranno. E salgono perché sono tenuti su da tutti quegli investitori che non hanno bisogno della casa, ma che hanno bisogno di fare investimenti. Quindi compreranno dieci appartamenti da affittare, tra Milano, Londra o New York.

La bella notizia è che la città resiste.
Il concetto di città cambia, diventa bene d’investimento. Un asset class. In un portafogli di fondo d’investimento posso investire un po’ in azioni, in obbligazioni, in materie prime e un po’ in case. Ecco che allora la casa non la compra più chi ci va ad abitare, ma un fondo, perché alloca il suo capitale anche in real estate.

E le città si svuoteranno.
Sì, sarà un grande casino. Le case diventano beni di investimento, le gonfi e le sgonfi come un tappetino pneumatico, riempiendole di persone o svuotandole, anche grazie a nuove piattaforme che consentono di affittarle ai turisti con affitti brevi.

Un brutto scenario.
Sradichi il senso di socialità di una città. Ecco perché molti centri urbani, come ad esempio Milano, cercano di potenziare le periferie. Il centro verrà abitato sempre di più da uffici, alberghi, affitti a breve termine per turisti mordi e fuggi. E dai pochi che potranno permetterselo.

Così finisce il senso della città.
Bisogna rivisitare il tema delle città globali. In primis per l’inquinamento. E poi per la gentrificazione. Qualche volta è spontanea, altre volte studiata.

In che senso?
Sempre più i fondi comprano un’area e la cambiano per valorizzarla. Ci metti una galleria d’arte cool, un bar e una pizzeria alla moda, un barbiere fighetto, ristrutturi i palazzi, alzi un po’ le rate dei mutui: questa è la gentrificazione.

Come l’area intorno alla Fondazione Prada, a Milano. Quella zona ospiterà il Villaggio Olimpico per i Giochi invernali di Milano-Cortina 2026.
Il punto è che non puoi gentrificare tutto. Perché poi per fortuna arriva Spike Lee o chi per lui e dice che non esiste più un posto vero, e che è tutto un palcoscenico. Intanto i prezzi salgono, e la povera gente deve spingersi verso luoghi ameni e desertificati. E aumenta la polarizzazione tra ricchi e poveri, il vero problema.

Società liquida, car sharing, proprietà condivise.
Prendere tutto in prestito. Questo è un modello che può funzionare perché è sostenibile. Non mi fa paura.

Che cosa la spaventa?
La disintermediazione. I diritti sociali conquistati in cento anni di lotte, completamente cancellati. Penso ai rider che pedalano per 3 euro l’ora, senza assistenza sanitaria o un’assicurazione se qualcuno li investe. È un modello di outsourcing, e i rischi sono di nuovo in capo al lavoratore.

Come molte giovani partite Iva. Dovrebbero essere imprenditori di se stessi.
Dietro questa narrativa bellissima che chiamano imprenditore di te stesso si nasconde una schiavitù digitale. Questo è un modello che va combattuto. Ne parlo nel libro Candido e la tecnologia, esce a febbraio, con la Nave di Teseo. È il primo scritto interamente con il collettivo I Diavoli.

Scrive un libro all’anno lei. L’informazione che fine farà?
I giovani devono leggere, ma prima devono imparare a farlo. Dentro ai giornali, che hanno delle regole, c’è un mondo. Contrariamente al web: lì non ci sono regole e trovi di tutto senza capire che cosa è vero e che cosa no.

Belle parole, ma lei che tratta di finanza saprà che si investe sempre meno nella carta.
Sbagliano. Leggere i giornali è importante per diventare liberi. Se potessi, lascerei il mio lavoro per andare nelle scuole a insegnare a leggere il giornale ai ragazzi. E capire le notizie.

Mi dicono che stia per investire in una web agency che si occupa proprio di educational.
Non ne vorrei parlare prima dell’ufficialità dell’accordo. Ma sono convinto che non ci sarà futuro se non si parte dall’educazione delle generazioni più giovani.

Ha consigliato lei a sua moglie, la conduttrice Caterina Balivo, dopo 20 anni ininterrotti di Rai, di prendere un anno sabbatico?
È molto difficile consigliare la moglie sul proprio lavoro. Ma ritengo che sia giusto lasciare un progetto quando sta andando bene. Premia sempre trovare la forza di lasciare sui livelli massimi, per poi approcciare un altro progetto. Ci vuole solo coraggio e Caterina ce l’ha avuto. Ora deve capitalizzare.

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