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Viaggio nel turismo post pandemia. Il fondatore di Airbnb a Forbes: “Niente sarà più come prima”

Articolo tratto dal numero di agosto 2021 di Forbes Italia. Abbonati!

Quando un’anziana signora di Tsuyama, nel sud-ovest del Giappone, scoprì un sito chiamato Airbnb, la cittadina si stava svuotando da anni. Fondata nel 1929 intorno alle rovine di un castello secentesco, veniva prosciugata dall’invecchiamento della popolazione e dalla migrazione dei più giovani verso centri più grandi. Ciò nonostante, la donna si iscrisse a Airbnb e diventò una host: una dei quattro milioni di persone che affittano le loro case a sconosciuti. Secondo i vicini, pensare di attrarre turisti in quell’angolo della prefettura di Okayama – cinque righe sulla versione italiana di Wikipedia, due delle quali dedicate a una strage – era un chiaro segno di pazzia. Eppure, qualche mese più tardi, la donna aveva creato una micro-economia locale. Assunse conoscenti come guide turistiche o traduttori e generò un flusso turistico alimentato soprattutto dalle rovine del castello, un tempo il più imponente di tutto il Giappone, e dai cinquemila ciliegi che lo circondano.

Joe Gebbia, uno dei fondatori di Airbnb, scoprì la storia della donna di Tsuyama durante un viaggio di lavoro in Oriente. La vicenda, raccontata per la prima volta nel 2016 dalla rivista Fast Company, gli suggerì l’idea di costruire, nelle aree rurali prive di strutture ricettive, edifici che fossero sia sistemazioni per i turisti, sia luoghi di ritrovo per la comunità locale. Il primo esempio – concepito dall’architetto Go Hasegawa – si trova nella cittadina di Yoshino, non lontano da Osaka: un centro costruito con il legno di cedro delle montagne circostanti. La struttura divenne il progetto inaugurale di Samara, lo studio interno di design e innovazione di Airbnb, destinato all’edilizia sociale e alla promozione del turismo nelle aree rurali.

La genesi di Samara, sebbene vecchia di cinque anni, è oggi più attuale che mai. Fotografa infatti non solo il crescente interesse turistico per destinazioni non canoniche, ma anche l’esigenza, per chi opera nel mondo dei viaggi, di trasformarsi e adeguarsi a una nuova normalità. “Il nostro settore”, pronostica Gebbia, “sta per attraversare la trasformazione più netta dopo la Seconda guerra mondiale”.

La Yoshino Cedar House

Il sito di pubblicazione scientifica OurWorldInData scrive che il volume dei viaggi internazionali è cresciuto di 56 volte tra il 1950 e il 2019. Secondo il World Travel & Tourism Council, forum globale del settore, in era pre-Covid il turismo pesava per più del 10% sull’economia globale. Per l’Italia, dice l’Istat, la quota è del 13%.

Con la pandemia, però, il giro d’affari è crollato. L’Organizzazione mondiale del turismo, agenzia delle Nazioni unite, calcola che il settore sia tornato oggi ai livelli del 1990 e stima i danni provocati dal Covid in quattromila miliardi di dollari. Il calo dei viaggi internazionali è stato del 73% nel 2020 e dell’88% nel primo trimestre del 2021. I posti di lavoro a rischio sono tra i 100 e 120 milioni.

“I viaggi all’interno del proprio paese sono aumentati, ma aiutano ben poco le economie in via di sviluppo, che dipendono dal turismo internazionale”, si legge nello studio. Anche perché a restare a casa sono soprattutto “i pensionati, vale a dire le persone che spendono di più quando sono in viaggio”. Gli esperti non prevedono un ritorno ai livelli pre-pandemia prima del 2023. E anche allora, secondo Gebbia, il panorama sarà molto diverso rispetto al 2019. “Credo che il nostro settore non tornerà mai alla normalità”, dice. “Nascerà, semmai, una nuova normalità, di cui già troviamo traccia nelle scelte dei nostri clienti”.

La definizione “nostri clienti”, nel caso di Gebbia, identifica circa 900 milioni di persone. L’ultimo aggiornamento del sito ufficiale della sua azienda parla di 5,6 milioni di alloggi disponibili, sparsi in 100mila città: un giro d’affari così vasto che molte indagini sul settore turistico utilizzano come campione proprio gli utenti di Airbnb. Lo ha fatto, per esempio, la Banca d’Italia, che a febbraio ha pubblicato uno studio sugli affitti brevi in 19 delle principali città europee. “I risultati si estendono con ogni probabilità all’intero settore del turismo”, spiegava il rapporto. “Airbnb è infatti la più grande piattaforma peer-to-peer per affitti brevi” e, negli ultimi anni, ha assunto dimensioni significative “anche rispetto all’industria alberghiera in generale”. La capitalizzazione di mercato – circa 95 miliardi di dollari – è infatti superiore alla somma di quelle delle catene Marriott, Hilton e Hyatt (dati al 30 giugno). “I numeri”, aggiungeva lo studio, “sono strettamente correlati ad altre attività, come la ristorazione e l’industria della cultura e dell’intrattenimento”.

La ricerca ricorda che, nei primi mesi del 2020, il mercato degli affitti brevi cresceva del 10% circa in quasi tutte le città analizzate. Entro maggio la tendenza era negativa ovunque e, in estate, l’offerta è stata inferiore di un quarto rispetto al corrispondente periodo del 2019. La pandemia ha portato anche a “un peggioramento della qualità media degli appartamenti sul mercato” e a un calo dei prezzi: a settembre la diminuzione, per le prenotazioni con un mese di anticipo, era del 17%. Un dato significativo anche perché il dato “ha una forte correlazione con i prezzi degli alberghi. Di conseguenza, i risultati hanno implicazioni al di là di Airbnb” e “lasciano pensare che il decremento continuerà anche quando la situazione sanitaria si sarà normalizzata”.

Un contributo decisivo al crollo del mercato dei viaggi è arrivato anche dall’adozione in massa dello smart working. Secondo i dati di Trondent Development, società che fornisce software alle aziende del settore, prima del Covid gli spostamenti di lavoro erano responsabili del 75% dei profitti delle compagnie aeree. “Ora la linea di confine tra lavoro, vita privata e viaggio sta diventando sempre più labile”, commenta Gebbia. “Le persone sono molto più flessibili, per esempio, nella scelta dei periodi in cui si allontanano da casa. Il turismo è sempre stato un business stagionale: esplodeva d’estate, si sgonfiava in inverno. Il telelavoro ha cambiato tutto”.

In passato, il viaggio estivo più comune su Airbnb era quello di uno o due viaggiatori verso le grandi città. Nell’estate 2021 prevale invece lo spostamento della famiglia dalla città verso un centro più piccolo. Le prenotazioni di alloggi che possono ospitare almeno cinque persone sono aumentate dal 35% dell’estate 2019 al 54% di quella in corso. Le notti prenotate in aree rurali sono passate dal 10% del 2015 al 22% del 2021 a livello globale, e dal 21 al 37 nel nostro Paese. Se, per esempio, Roma era la destinazione italiana con più prenotazioni su Airbnb nell’estate 2019, quest’anno il primato è passato alla Sardegna. In Francia, Parigi è stata scavalcata dal Var, il dipartimento di Tolone e Saint-Tropez. In Germania la costa del Baltico batte Berlino, in Corea del Sud l’isola vulcanica di Jeju è più popolare di Seul.

Isola Jeju
L’alba sull’isola di Jeju, in Corea del Sud (Shutterstock)

Nella stessa tendenza va inquadrata anche la popolarità delle cosiddette staycation, fusione di di “stay” (“restare”) e “vacation” (“vacanza”). “Quando i voli internazionali erano bloccati”, spiega Gebbia, “le persone non avevano perso la voglia di viaggiare. E hanno scoperto che per provare un’esperienza nuova, non serve andare lontano: spesso basta un’ora di macchina”. Un anno e mezzo fa, solo il 30% delle prenotazioni era per destinazioni a meno di 300 miglia da casa. Oggi la quota è superiore al 45%.

“Un altro fenomeno in atto è l’allungamento dei soggiorni”, prosegue Gebbia. “Anche questa tendenza è riconducibile alle nuove modalità di lavoro: chi non deve andare in ufficio può vivere ovunque ci sia una connessione wi-fi”. Quasi un quarto delle notti prenotate nel primo trimestre del 2021 sono state per permanenze a lungo termine (28 giorni o più), contro il 14% del 2019. Tra gli utenti che hanno compiuto quelle prenotazioni, l’11% ha dichiarato di avere adottato “uno stile di vita nomade”. E il 5% prevede di rinunciare a una residenza fissa a favore di soggiorni Airbnb.

La stessa azienda è stata costretta a rivedere il suo servizio alla luce delle nuove tendenze. A maggio ha annunciato 100 nuove funzionalità, in quella che Gebbia definisce “la più grande innovazione dell’ultimo decennio”. Aggiornamenti sviluppati negli stessi mesi in cui pandemia e restrizioni abbattevano le entrate di Airbnb: il fatturato 2020 è stato di 3,4 miliardi, contro i 4,8 del 2019. “Non potevamo smettere di rinnovarci: la tecnologia si evolve di continuo e una tech company, anche nei momenti più complicati, ha l’obbligo di fare altrettanto”, dice Gebbia. Che se ne rese conto, secondo la leggenda tramandata ancora da Fast Company, in una sera del 2014. Durante una discussione sul futuro dell’azienda, Gebbia e gli altri fondatori di Airbnb – Brian Chesky, amministratore delegato, e Nathan Blecharczyk, chief strategy officer – si imbatterono in una lista delle più grandi tech company degli anni ‘90. “Ciò che scoprirono li stupì e li terrorizzò”, si legge: nove di quelle aziende erano defunte o in crisi. “Avevano fatto tutto bene. Eppure, focalizzandosi solo sul loro core business, avevano permesso alla concorrenza di copiarle”.

Gebbia è oggi a capo di due iniziative che rispondono a questa esigenza: oltre a Samara, guida anche Airbnb.org, un’organizzazione non profit che fornisce alloggi in situazioni di emergenza. “Nel 2012, quando l’uragano Sandy colpì New York, un host di Brooklyn ci chiese di poter mettere le sue camere degli ospiti a disposizione delle persone rimaste senza casa”, ricorda. “Da quella mail è nata una piattaforma che, negli anni, ha dato alloggio a decine di migliaia di persone lasciate senza un tetto da incendi, inondazioni, terremoti e tsunami”.

Nel 2020, dopo lo scoppio della pandemia, Airbnb.org ha procurato 200mila stanze a medici e infermieri che non potevano tornare a casa per non esporre le famiglie al rischio di contagio. “Un progetto partito dagli host italiani”, sottolinea Gebbia, il cui bisnonno partì per l’America proprio dal nostro Paese, all’inizio del ‘900. La famiglia è infatti originaria di Mezzojuso, colonia albanese fondata nel XV secolo tra le montagne dell’entroterra palermitano, da cui provenivano anche gli avi di Mike Bongiorno ed Enrico Cuccia. Joe, 177esima persona più ricca al mondo secondo l’ultima classifica di Forbes, con un patrimonio di 12,4 miliardi di dollari, è cittadino onorario del comune siciliano dal 2018. Nato ad Atlanta nel 1981, si è laureato in design industriale e grafica alla Rhode Island School of Design, dove conobbe Brian Chesky.

Proprio il design, ricorda Gebbia, è alla base della nascita di Airbnb. E non solo perché fu in occasione di un convegno dell’Industrial Designers Society of America, quando era impossibile trovare una camera d’albergo a San Francisco, che Gebbia suggerì a Chesky l’idea di ospitare per qualche giorno chi ancora non aveva trovato una sistemazione. Il seme di un’idea imprenditoriale che, nei primi giorni, faticò a convincere potenziali investitori. “Andavamo nei loro uffici”, ha ricordato Gebbia in un Ted Talk, “e spiegavamo di volere costruire un sito su cui le persone avrebbero pubblicato foto degli angoli più intimi delle loro case: camere da letto, bagni, tutte quelle stanze che di solito tengono chiuse quando hanno ospiti. Poi, tramite internet, avrebbero invitato sconosciuti a dormire da loro. Ci aspettavamo che Airbnb prendesse quota con la velocità di un razzo. Non accadde”. Solo di fronte alle perplessità degli investitori i fondatori si resero conto di essersi scontrati “con una paura che ci viene inculcata sin da bambini: quella degli sconosciuti. In un momento di difficoltà, fai affidamento a ciò che conosci, e tutto ciò che conoscevamo era il design. Quello che abbiamo scoperto è che il design – che non è solo l’aspetto di un oggetto, ma l’intera esperienza – può aiutarci a superare perfino i preconcetti più radicati”.

I designer di riferimento di Gebbia sono Charles e Ray Eames, la coppia di coniugi che inventò il cosiddetto design organico. “Lo scopo del loro lavoro era creare i migliori progetti per il massimo numero di persone al minimo prezzo”, ha raccontato Gebbia alla Cnbc. “Come gli Eames hanno democratizzato il design, così noi abbiamo democratizzato i viaggi”.

Altri, tuttavia, vedono Airbnb sotto una luce meno romantica. C’è chi, come i ricercatori della rete internazionale LabGov, vede nell’azienda l’emblema della “disneyzzazione”: un termine introdotto dal sociologo Alan Bryman, convinto che le città e le strutture pubbliche del mondo occidentale siano sempre più ispirate ai parchi a tema disneyani. Una tendenza che porta le città con grandi ricchezze architettoniche a liberare il centro dai residenti per renderle più attraenti per i turisti. Nel 2016, il Guardian ricordava inoltre come Airbnb fosse accusata di “contribuire alla gentrificazione di alcuni quartieri”, ovvero alla trasformazione di aree urbane popolari in zone per ricchi. “Più proprietà disponibili sulla piattaforma significano meno case a disposizione di chi vuole abitare sul posto e, di conseguenza, un aumento dei prezzi”. Il think tank americano Economic Policy Institute scriveva, due anni fa, che “studi di alta qualità indicano che l’introduzione e l’espansione di Airbnb a New York, per esempio, potrebbe avere causato una crescita del prezzo dell’affitto di quasi 400 dollari all’anno per i residenti”. Il rapporto concludeva che “i costi economici imposti da Airbnb superano probabilmente i benefici”.

Città di tutto il mondo, negli ultimi anni, hanno posto limiti agli affitti brevi per provare a frenare il fenomeno dell’overtourism, il sovraffollamento turistico che influenza in modo negativo la vita dei cittadini e le esperienze dei visitatori. Quanto all’Italia, nel 2018 un’indagine condotta da Federalberghi, in collaborazione con due istituti di ricerca indipendenti, stimava in 200 milioni di euro il sommerso degli affitti brevi. L’anno successivo, l’Ente Bilaterale Turismo Del Lazio calcolava circa 50 milioni di tassazione evasa nella sola Roma. L’associazione Hostpiuhost, che riunisce i proprietari che affittano su Airbnb, ha negato l’esistenza di una shadow economy.

Abbiamo versato 3,4 miliardi di dollari di tasse ai governi per conto della nostra comunità globale di host e vogliamo collaborare con le città”, replica Gebbia. “Abbiamo oltre 100 partnership con destinazioni turistiche, organizzazioni, governi e non profit per favorire la ripresa economica. In Italia collaboriamo con l’Italian Touring Club per assistere centinaia di borghi nel gestire la ripresa del turismo”.

L’azienda rivendica infatti di avere un impatto positivo sulle economie locali. Tramite il suo sito ufficiale, ha rilanciato uno studio di Oxford Economics, che ha valutato l’impatto di Airbnb su 30 comunità di tutto il mondo. La ricerca ha calcolato 300mila posti di lavoro creati: circa nove ogni mille ospiti. Airbnb affermava inoltre, in un report di maggio, che “ospitare tramite” la piattaforma “ha risposto alle esigenze di molte persone in un momento difficile”. In particolare, si legge, il 47% degli host ha perso ore di lavoro, ha subito una riduzione di stipendio o è rimasto senza lavoro durante il Covid, oppure vive con qualcuno in una di queste condizioni. Nell’anno che si è concluso il 30 aprile, ospitare su Airbnb ha permesso agli host di guadagnare, in media, 9.600 dollari, “quasi sette volte l’assegno medio staccato dal governo americano per sostenere i cittadini”. 

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