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La Scozia come l’Islanda: pensa alla settimana di lavoro da quattro giorni. E l’80% dei cittadini è favorevole

Era stata una delle promesse elettorali della premier, Nicola Sturgeon: un fondo da 10 milioni di sterline “per permettere alle aziende di esplorare i benefici di una settimana lavorativa da quattro giorni”. Ora la Scozia sembra vicina ad aggiungersi alla lista dei paesi che sperimentano l’orario ridotto senza tagli di stipendio.

A incoraggiare il piano del governo contribuiscono ora anche i risultati di un sondaggio del think tank Institute for public policy research (Ippr), condotto su un campione di oltre 2mila persone in età lavorativa. L’80% degli intervistati è convinto infatti che il passaggio ai quattro giorni potrebbe avere “un effetto positivo sul suo benessere” e l’88% sarebbe disposto a prendere parte a un programma sperimentale. Quasi due su tre, inoltre, sono convinti che il cambiamento potrebbe incrementare la produttività del Paese.

Il progetto scozzese per la settimana di lavoro da quattro giorni

Durante la campagna elettorale, Sturgeon aveva affermato che il suo governo “avrebbe utilizzato le lezioni apprese” durante il progetto pilota per valutare “un passaggio generale alla settimana lavorativa da quattro giorni”. Secondo la premier, che guida un partito indipendentista e, dopo la vittoria, aveva promesso un secondo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito, la trasformazione potrà avvenire “quando la Scozia avrà ottenuto il pieno controllo delle politiche del lavoro”. Aveva aggiunto poi che avrebbe “supportato una revisione delle pratiche lavorative”, per venire incontro alle “esigenze dell’economia del futuro”. Un riferimento a un fenomeno identificato anche dal rapporto dell’Ippr: lo “stravolgimento” delle modalità di lavoro avvenuto – in Scozia come altrove – durante la pandemia.

L’Ippr sottolinea anche che la riduzione dei giorni lavorativi settimanali è solo una delle strade possibili per rivedere “un’economia orientata a orari pesanti”, che “danneggiano il bilanciamento tra lavoro e vita privata e il benessere”. Ipotizza infatti anche un incremento delle ferie annuali, turni giornalieri più brevi e l’estensione di specifici permessi, come il congedo parentale.

Il precedente dell’Islanda

L’Ippr propone di “espandere il programma pilota” a “una vasta gamma di settori”, inclusi quelli che non prevedono impiego d’ufficio. Il piano dovrebbe sostenere le aziende disposte a sperimentare “una riduzione del 20% delle ore medie” per “circa 20mila lavoratori in un periodo di tre anni”. Secondo il rapporto, solo un progetto di questa portata – che dovrebbe includere anche chi potrebbe trovare più difficile il passaggio ai quattro giorni – permetterebbe di valutare appieno l’impatto del cambiamento.

Lo scenario disegnato dall’Ippr sembra avvicinarsi all’esperimento compiuto in Islanda tra il 2015 e il 2019. Un test che ha coinvolto luoghi di lavoro di vario genere, come scuole materne, uffici, servizi sociali e ospedali, e 2.500 persone: un campione enorme, in un Paese con soli 356mila abitanti. Secondo i ricercatori che hanno analizzato i risultati, lo studio è stato “un successo straordinario”. Un rapporto concludeva che la produttività era rimasta costante o era addirittura aumentata, mentre i dipendenti affermavano di accusare meno stress e di avere più tempo da dedicare alla famiglia e agli hobby.

I quattro giorni di lavoro nel mondo

Diversi esperimenti sulla settimana breve sono stati promossi da aziende private. È il caso, tra gli altri, di Unilever in Nuova Zelanda, di Toyota in Svezia e di Microsoft in Giappone. Il network internazionale Awin è passato a gennaio al regime dei quattro giorni per tutti i dipendenti, inclusi quelli italiani. E a Milano ha fatto altrettanto anche Carter & Benson.

Quanto alla politica, il governo nazionale islandese e quello locale di Rejkyavik non erano stati i primi a muoversi. Già tra il 2008 e il 2011, per esempio, i dipendenti dello stato dello Utah avevano lavorato per quattro giorni alla settimana, anche se senza riduzione di orario: i turni erano stati allungati da otto a dieci ore. Lo stesso avevano fatto, tra il 2013 e il 2017, i funzionari pubblici del Gambia.

Negli ultimi anni, però, le motivazioni che spingono a sperimentare nuovi modelli sembrano essere cambiate. Se l’allora governatore dello Utah, Jon Huntsman, aveva in mente di risparmiare sulle spese per energia e riscaldamento, e l’ex presidente del Gambia Yahya Jammeh voleva dedicare i venerdì alla preghiera e all’agricoltura, oggi sono al centro del dibattito i temi del benessere fisico e psicologico dei lavoratori e del bilanciamento tra vita privata e professionale.

La formazione di sinistra spagnola Más País, per esempio, ha chiesto di ridurre l’orario settimanale a 32 ore. Un progetto che secondo il leader del partito, Íñigo Errejón, servirebbe a “portare la salute mentale al centro del dibattito politico”. La proposta ha ottenuto l’appoggio del governo e si tradurrà in un programma pilota di 3 anni, che metterà 50 milioni di euro a disposizione delle aziende interessate.

Il caso del Giappone

Anche il Piano economico annuale giapponese include l’idea di incoraggiare le aziende a permettere ai dipendenti di scegliere tra i quattro e i cinque giorni. Il premier, Yoshihide Suga, ha spiegato che l’intento è di “aiutare le famiglie a gestire difficili situazioni domestiche”, oltre che di “permettere ai lavoratori di migliorare le proprie competenze”.

La proposta ha colpito anche perché è arrivata dal Paese la cui lingua comprende perfino una parola – karoshi – per indicare la morte per troppo lavoro. Come ha spiegato il Corriere della sera, alla radice c’è anche la volontà di permettere “alle coppie più giovani di mettere in cantiere più figli”, e dunque di “ringiovanire una società sempre più vecchia”. Per ora, il problema è sentito soprattutto nel Paese più vecchio del mondo, dove gli uomini e le donne sopra i 65 anni costituiscono il 28,4% della popolazione. Presto, però, se è vero che entro 30 anni le morti nel mondo supereranno le nascite, potrebbe interessare tutti.

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