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Addio a Carlo Vichi, fondatore geniale della storica azienda di televisori Mivar

L’Italia è un Paese di nostalgici, pieno di persone che rimpiangono i bei tempi andati. Siccome il presente dà magre soddisfazioni, ci si rifugia nel passato: “Il futuro non è più quello di una volta” (citazione dello scrittore, poeta e filosofo Paul Valery).

Ieri ne n’è andato a 98 anni Carlo Vichi, il patron della Mivar (nata nel 1955) – Milano Vichi Apparecchi Radio – che negli anni Sessanta e Settanta raggiunse l’apice del successo diventando il primo produttore tv sul territorio italiano. Al culmine del successo, in un anno, dallo stabilimento di Abbiategrasso, alle porte di Milano, si sfornarono quasi un milione di apparecchi tv.

La vita di Vichi va posta al vaglio di un attento discernimento temporale. Negli anni Cinquanta, in pieno boom economico si rivelò un genio, capace di produrre televisori a un prezzo imbattibile, capace di battere qualsiasi concorrente. Vichi, partito dal niente, si mise in proprio negli anni Cinquanta producendo prima apparecchi radio e poi televisori, in bianco e nero e poi a colori. I dipendenti intanto crebbero come funghi raggiungendo 800 unità nel 1968.

Successivamente Vichi si rivelò incapace di affrontare la concorrenza estera, per lo più asiatica. La direzione rimase in mano solo a lui, “un uomo solo al comando”. La struttura dell’azienda rimase quella di un tempo, i pareri esterni non venivano ascoltati, contava solo il pensiero del “padrone”. Il padre di Vichi lo ripeteva spesso: “Mio figlio non ascolta nessuno, fa solo di testa sua”. Vichi era solito dire: “In fabbrica si dice sissignore, come nell’Esercito, nessuno può venire a comandare a casa mia”.

La competizione degli anni Ottanta-Novanta necessitava di una organizzazione aziendale diversa, dove il potere avrebbe dovuto essere distribuito a favore di un comitato esecutivo. O di un consiglio di amministrazione. Invece Vichi credeva solo in se stesso, amministratore unico, con uno stile di direzione autoritario. I suoi riferimenti erano Mussolini – di cui aveva un busto in ufficio – e Hitler. C’è di meglio, eh, su questa terra.

Come molte imprese italiane, la Mivar non ha retto la competizione internazionale. Invece di puntare sull’innovazione, Mivar ha continuato a produrre tv col tubo catodico, quando il mondo puntava sul digitale, su schermi piatti, a cristalli liquidi. Se un imprenditore non investe nella gestione caratteristica, prima o poi muore. Le risorse Vichi le aveva, ma le ha tenute per sé, replicando il modello classico descritto lucidamente da Claudio Demattè, fondatore della Scuola di Direzione aziendale della Bocconi: imprenditore ricco, azienda povera (e indebitata). Perché non aprire il capitale a soci non familiari? Paura di perdere il comando aziendale?

Sono stati diversi i collaboratori nel settore R&D costretti ad andare via perché il modello autoritario vichiano non ammetteva pensiero non tradizionale.

Mentre Steve Jobs invitava a “stare foolish” – pensare in modo non omologato – Vichi credeva di avere sempre ragione. Anche quando novantenne si mise a produrre mobili – Milano Vichi Arredi Razionali – che non piacevano a nessuno.

L’imprenditore italiano deve capire che le dimensioni contano, che il “piccolo è bello” è un mantra sbagliato, che si devono reperire anche manager esterni, che il controllo di gestione è fondamentale, che, in caso di necessità, si deve allargare la compagine societaria. Solo così si è in grado di combattere ad armi pari con la concorrenza mondiale. Che è battibile. Se si accetta di pagare gente che non la pensa come noi.

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