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“È una forma d’arte”: Carlo Cracco racconta a Forbes il suo nuovo business dei distillati

Non conosce tregua lo chef Carlo Cracco. Non appena raggiunge un obiettivo, guarda già verso una sfida ancora più ambiziosa. L’ultima sono i distillati, una passione che ha da sempre e che ora sta diventando un progetto a lungo termine. 

La cucina è parte della sua vita da quando ha 16 anni, le sfide per migliorarsi sono il motore che lo hanno portato lontano. Da allievo del maestro Gualtiero Marchesi – insieme, tra gli altri, a Davide Oldani, Ernst Knamm, Andrea Berton per citarne alcuni – è arrivato a creare il suo ristorante a Milano, prima nella sede storica di via Victor Hugo e oggi nella prestigiosa Galleria Vittorio Emanuele. È stato il primo chef ad accettare programmi televisivi di successo, prima Masterchef e poi Hell’s Kitchen, e li ha lasciati all’apice della popolarità, quando riteneva che non avesse altro da aggiungere. “In questi anni insieme Carlo mi ha insegnato a non sentirsi mai arrivati. Ad alzare sempre l’asticella. Quando penso che abbia raggiunto il suo limite, mi stupisce ogni volta. Va alla ricerca di stimoli nuovi, è come se non potesse vivere senza”, è la descrizione di lui fatta l’anno scorso a Forbes Italia da Rosa Fanti, moglie e suo braccio destro. 

Da quando ha lasciato gli studi televisivi si è dedicato solo alla famiglia e al suo ristorante, aggiungendo tra le nuove sfide lo spazio di eventi Carlo e Camilla in Segheria, il terreno agricolo in Romagna, la linea di prodotti biologici Vista mare e il sito ecommerce, nato durante la pandemia. Ora è arrivato il momento dei distillati. Campo in cui lo chef sembra voler fare sul serio. 

Per presentarli ha voluto un pranzo informale – si fa per dire – nel suo ristorante, attovagliando intorno a un unico lungo tavolo i migliori barman d’Italia. Uovo nero, risotto al cacao e controfiletto di manzo alla brace con capperi e liquirizia sono i piatti a cui ha abbinato le sue tre creazioni: amaro bianco, limoncello organico e gin organico. E al suo fianco, per la presentazione dei drink, ha avuto l’accompagnamento dell’imprenditore e barman Flavio Angiolillo.

In passato aveva già dimostrato un certo interesse per il gin, con l’edizione limitata di mille bottiglie create con Portobello Road London Dry Gin. Era il 2016. E poi?

“La passione per i vini e i distillati l’ho sempre avuta. Ma quella collaborazione era arrivata grazie a un premio, che ha avuto il merito di farmi provare l’entusiasmo per un nuovo prodotto e capire come partire col progetto. Volevo sviluppare qualcosa di nostro. Così abbiamo preso le misure e col tempo si è realizzata”. 

Stavolta non siete partiti subito col gin.

No, abbiamo cominciato dai prodotti più difficili, quelli che non avevamo ancora sperimentato: l’amaro bianco organico e a seguire il limoncello. E poi sì, anche il gin”.

È stato un percorso lunghissimo. 

“Per me il lavoro non è mettere un’etichetta davanti alla bottiglia. Io voglio seguire tutto il procedimento. E poi serve coerenza. Non è stato semplice creare una linea di tre prodotti con un filo che li lega. Produciamo vicino ad Asti, da Quaglia distilleria, che ha una serie di expertise che garantiscono la buona riuscita del prodotto. Il futuro è ricco di progetti”.

Durante il pranzo coi barman ha raccontato che gli ospiti del suo ristorante chiedono quasi sempre o il limoncello o l’amaro. Che però non rendono giustizia al pasto appena consumato: se negli ultimi anni i palati si sono raffinati e i clienti hanno imparato ad apprezzare nuovi gusti e abbinamenti, questo sembra non accadere coi liquori e distillati. E così c’ha pensato lei.

“Siamo partiti proprio da questo spirito, dai due drink di fine pasto più richiesti. Tutti vogliono gli amari tradizionali che però oggi non hanno più accezione artigianale, o bio, come sta succedendo nel mondo del gin. Sono tutti industriali. Il limoncello, ad esempio, necessitava di ingredienti che lo rendessero meno banale. Serviva un valore aggiunto”.

Il suo qual è stato?

“Il sale. Solo da un deviato come me poteva arrivare quest’idea (ride, ndr). Però poi nelle giuste dosi c’è equilibrio e funziona. È importante mantenere la tradizione ma con qualità”.

Una volta mi disse: “Per essere competitivi oggi non è più sufficiente far bene da mangiare, ma è quasi un dovere sapere che cosa si mette nel piatto”. Anche i distillati devono avere ingredienti di qualità?

Ovvio. E non solo: dal procedimento agli ingredienti è importante seguire la tradizione, che va fatta vivere e non abbandonata”. 

Vaniglia del Madagascar, semi di coriandolo, fiori di ibisco, radice di liquirizia, boccioli di rosa damascena, scorze di arancio amaro. Che cosa sono?

Alcuni ingredienti dell’amaro”.

Capisco perché le sia servito tempo.

“Sì, più di un anno per mettere a punto le ricette, è stato un lavoro pazzesco. Abbiamo iniziato a lavorare al progetto nel 2018, molto prima della pandemia. La pandemia è servita perché abbiamo avuto più tempo per sperimentare, non ne avremo mai più per i prossimi dieci anni”.

Lei parla sempre al plurale, ma sappiamo tutti che il motore della sua brigata è lei.

“Mi creda, senza un team di cui mi fido e con cui posso confrontarmi, non sarei riuscito a fare la metà delle cose. La parte più difficile di chi fa il mio lavoro è il gruppo di lavoro”. 

Della sua brigata chi coinvolge?

“Cucina e bar sono sempre informati. Cerco sempre di fare un panel con idee e suggerimenti che arrivano da tutti”.

Lei sembra sapere sempre tutto, ma a lei i consigli chi li da?

“Io sono curioso, assorbo da tutti. I gin days sono stati preziosi per riconoscere certi sapori. Poi nel gusto cerco di aggiungere la mia esperienza: se nasce un prodotto mio voglio che sia riconoscibile”. 

Quando il gin è diventato la sua passione?

“Ho bevuto il primo vero gin in Spagna a San Sebastian nel 2001, era da poco scoppiata la mania del gin tonic. All’inizio non capivo questa affezione, poi un po’ alla volta ho capito che c’era dietro un’arte”.

La grappa ha perso il valore di una volta?

“Una volta era il distillato più richiesto. Oggi lo ha sostituito il gin, più versatile e giovane. Di fianco c’è il mondo degli amari, campo dominato da grandi nomi e troppo poco da piccoli artigiani. Che invece dovranno venire fuori. Come è accaduto proprio per il gin”.

Si spieghi.

“Sono nate microdistillerie che funzionano. Ma non esiste solo il gin. C’è ampio spazio per gli amari e i limoncelli non industriali”.

A lei chi ha insegnato a bere i distillati?

“Sono veneto, la cultura del distillato ce l’ho nel sangue. Mio nonno la grappa la beveva col latte”.

Lavora da quando ha 16 anni, dà l’impressione di sapere sempre tutto. Qual è il consiglio migliore che ha ricevuto? 

“È un proverbio giapponese: ‘Cadere sette volte e rialzarsi otto’. Chi non cade, non cresce”. 

Prima di una grande prova ha un rito o una frase che si ripete per sconfiggere la paura? 

“Io non ho mai paura. Uso molta concentrazione, quella sì. E per me è tutto ciò che serve”. 

Dopo quattro edizioni di Masterchef e cinque di Hell’s Kitchen non si è pentito di aver detto basta? 

“No. Se prendo una decisione, significa che l’ho elaborata ed è giusta per me. Alla tv sarò per sempre riconoscente, l’affetto che ho ricevuto dal pubblico mi ha dato grande energia. Ma amo profondamente il mio lavoro, la mia realizzazione passa dalla cucina”.

Ha mai ricevuto delusioni? 

“Nel tempo ho imparato a considerarle insegnamenti”.

In tv i suoi rimproveri erano i più temuti, succede anche nella sua cucina?

“Essere severo lo considero un regalo, che aiuta a migliorarsi. Nessun rimprovero è mai fine a se stesso”. 

Vale anche per i suoi figli? 

“Sì, perché voglio che diventino forti e indipendenti”.

Quali sono gli ingredienti che non devono mai mancare nella sua cucina?

“Coraggio, idee e qualità. Per ogni ricetta puoi usare ingredienti poveri, o parti meno nobili di un animale. La differenza la farà solo la qualità della materia prima e dei procedimenti. Sempre e solo quella”.

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