Radek Jelinek Mercedes Italia
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Dalla Cecoslovacchia comunista all’Italia del lusso moderno: l’intervista a Radek Jelinek, presidente di Mercedes Italia

Questo articolo è tratto dal numero di dicembre 2021 di Forbes Italia. Abbonati!

Ha una grande passione per l’Italia, cominciata quando aveva 11 anni, durante una vacanza con i genitori. L’allegria e i colori del nostro paese lo colpirono a fondo. Anche perché lui viveva con la famiglia nella Cecoslovacchia comunista e non c’era molto da stare allegri. L’Italia era nel destino di Radek Jelinek. “Già allora avevo deciso che volevo vivere qui”, racconta oggi nel suo ufficio di presidente di Mercedes Italia, in zona Tiburtina a Roma. “Venivo da un mondo grigio, triste, ed ero arrivato in un mondo che sembrava tutto colorato. Erano gli anni ’70, era tutto nuovo con le strade nuove. Dell’Italia mi era piaciuto lo stile, la cultura, più rilassata rispetto al Nord Europa. Sentivi di più la libertà. Mi piacevano la Formula Uno, i giochi – avevo 11 anni – e quel primo viaggio mi ha colpito. Mi piaceva anche che gli italiani fossero tutti vestiti bene”. Insomma, rivisto oggi, riavvolgendo il film, Radek è una specie di ragazzo della via Gluck dell’Est, scappato con uno zaino in spalla dopo gli studi, a 20 anni, sulle ali della libertà e il sogno occidentale. Ora però, da uomo di successo, si è talmente integrato che ha chiesto la cittadinanza italiana. 

Come ha fatto a fuggire? Erano tempi difficili. Di solito chi usciva dai paesi dell’Est rischiava anche qualche pallottola.
Infatti. Era quasi impossibile scappare verso Austria e Germania perché ti sparavano davvero. Così, tramite un’amica medico ho ottenuto un certificato per un’asma (anche se non era vero) e sono andato in treno a Belgrado per curarmi. In autostop sono arrivato al confine con l’Austria, quindi fino alla Slovenia e poi ho camminato per due giorni. Di notte c’erano le guardie di confine, sentivo i cani, le macchine della polizia, vedevo le luci.

Un bel rischio.
Sì. La giornata successiva al confine ho trovato due soldati nel tratto Jugoslavia-Austria che mi hanno puntato contro i loro kalashnikov mentre mi chiedevano il passaporto. Ho risposto che ero un turista e cercavo dell’acqua. Abbiamo aperto una bottiglia di vodka, poi sono arrivati altri vigilantes. Quando sono andati via ho fatto finita di tornare in Jugoslavia e invece sono passato attraverso le montagne. Avevo 20 anni e 300 marchi tedeschi in tasca. Alla fine ho superato il confine verso la Germania, ho chiesto asilo politico e dopo tre mesi avevo già i documenti. Così ho potuto lavorare: barista, commesso al supermercato. 

Avrebbe mai immaginato, allora, di diventare un manager apicale del gruppo Mercedes?
Ho iniziato a studiare e una signora mi segnalò la possibilità di avere una borsa di studio perché sapeva che non avrei avuto i soldi per la scuola. In Cecoslovacchia avevo tutti voti alti, tutti 10. Sono entrato poi all’università, ho studiato Economia, e durante gli studi ho fatto uno stage per Mercedes. Era parte del percorso formativo, quindi ho iniziato a conoscere la gente. Ho fatto un progetto che è piaciuto tanto, quindi, poi, mi hanno invitato a lavorare durante le vacanze per due mesi. Ho fatto la tesi sulla Mercedes e quando ho finito gli studi mi hanno assunto.

Di certo non come manager. 
No, naturalmente. Mi occupavo di finanza nella sezione investimenti, della parte progettuale.

Come si è sviluppata la sua carriera in Mercedes?
Ho lavorato nella città di Kassel per cinque anni, a Stoccarda per altri tre, nell’headquarter, e in Argentina per cinque anni, a Buenos Aires dal 1995 al 2000, senza conoscere la lingua e con 35 persone da gestire, sempre nel settore finance. Poi ho imparato lo spagnolo e sono stato in Venezuela dal 2000 al 2005 come cfo e poi nel 2002 sono diventato ceo di Mercedes-Benz Venezuela. È stato un periodo interessante perché ho conosciuto personaggi controversi come Chávez. In seguito sono andato come capo della Chrysler in Germania, e quando è finito il mio contratto, a gennaio 2011, sono tornato in Mercedes a Milano per cinque anni. 

Praticamente come la pallina di un flipper. Come è stata l’esperienza milanese?
Molto bella. Ho confermato le mie impressioni positive sull’Italia. In quegli anni Mercedes a Milano fatturava mezzo miliardo di euro. 

Cosa si ricorda di quel periodo? 
Sono arrivato nel 2011, con il governo Monti, in piena crisi finanziaria, era la prima volta che mi cimentavo nel retail. Però dopo ho vissuto la Milano che si preparava all’Expo 2015 e in quel periodo ho organizzato molti eventi per avvicinare i clienti a vere e proprie experience con aziende e partner importanti tra cui chef stellati, griffe della moda e luxury brand. L’obiettivo era risvegliare i cinque sensi e vivere le auto in modo diverso. Ho avuto successo e mi hanno offerto il ruolo di ceo di Mercedes-Benz in Messico, dove sono stato dal 2016 al 2018. A fine 2018 sono tornato in Italia come presidente di Mercedes-Benz Italia. E ora sono qui da tre anni. 

Che mercato è l’Italia per le auto di lusso?
È un mercato importante. In un periodo normale vendiamo 60mila Mercedes e 30mila Smart. L’Italia, dopo Germania e Inghilterra, è il mercato più importante in Europa, mentre a livello globale abbiamo in testa Cina e Stati Uniti. Ed è un mercato polarizzato: vendiamo tanti Suv, ma anche compatte, quindi Classe A. In Italia c’è una clientela tradizionale anche se ora inizia a crescere in maniera decisa il mercato delle auto ibride. 

In Italia l’auto è più status symbol o necessità di muoversi?
Forse non tutti sanno che Mercedes è per il 20% italiana. C’è una filiera pazzesca, hi-tech in Nord Italia e i fornitori sono tanti. Mercedes è mito, leggenda, è la storia che la collega all’innovazione e alla precisione tedesca. C’è grande fiducia verso il marchio. Abbiamo concessionari bravissimi che sono il nostro punto di riferimento. Direi che c’è tanto status symbol, che si identifica con il lusso moderno. Non conta solo il marchio, ma anche i suoi valori, la sostenibilità, i diritti umani e la governance dell’azienda. A volte si vende la voglia di appartenere a un certo mondo. Se non fosse così, ad esempio, tutti ci vestiremmo allo stesso modo.

Che tipo di contributo dà l’Italia a Mercedes dal punto di vista tecnologico?
Dal punto di vista della componentistica, dalle parti più semplici fino alle complessità elettroniche, c’è molta tecnologia italiana. Parliamo spesso in Italia di food, moda, cultura ma c’è anche la tecnologia e non solo nella parte Milano-Monza-Brescia ma anche nel Lazio, dove c’è tanto sviluppo tecnologico nell’hi-tech. 

Abbiamo detto che l’Italia è uno dei mercati principali per Mercedes in Europa. Cosa ha in più degli altri Paesi?
L’Italia è stata un Paese pilota per noi: per molti anni abbiamo avuto un centro del design, capivamo in che direzione andavano i trend, i gusti. Abbiamo ancora una squadra che studia quello che piacerà in futuro. C’è bisogno di eventi, di esperienze più esclusive e coinvolgenti. L’italiano non si accontenta di comprare una macchina, soprattutto a Milano. 

Secondo il suo punto di vista l’Italia è un Paese ricco?
Molto, se non altro ha i risparmi più alti in Europa. Certo, il giovane professionista magari non ha le stesse possibilità di un manager affermato, ma penso che l’Italia sia un Paese con tanta ricchezza culturale, bellezza che non si può spiegare in numeri. Pensiamo a Roma. L’italiano tiene molto ad avere una macchina bella, soprattutto dal punto di vista estetico.

Quando ha visto l’Italia per la prima volta, era forse spaghetti e mandolino. Oggi invece è diventata un’icona. Cosa è cambiato negli ultimi anni?
Anche dall’esterno si è visto che l’Italia ha fatto molti sforzi per cambiare quei fenomeni e luoghi comuni che avevano prodotto un’immagine negativa nel mondo. L’Italia è diventata più interdipendente dall’Europa, più adulta da questo punto di vista, allo stesso tempo l’Europa ha aiutato l’Italia a rispettare certi standard e l’ha fatta crescere senza farle perdere identità. Ai tedeschi ad esempio è sempre piaciuto venire in Italia, mangiare qui, ma non avevano grande stima per gli italiani a causa delle tante cose che non funzionavano. Ma anche questo sta cambiando.  

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