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Le superpotenze delle rinnovabili: chi ha in mano le materie prime per la transizione energetica

Una cosa abbiamo capito, forse, dalla guerra in Ucraina: è molto miope dipendere tanto da una sola fonte d’energia. Specie se quella fonte è imbottita di armi nucleari e preme sui confini dell’Europa. Così è iniziata una corsa affannosa per liberarci da gas, petrolio e carbone russi. Ci siamo messi in marcia, ma sarà un viaggio difficile e costoso. Il contributo russo, del resto, è fondamentale, soprattutto nel gas. Mosca, su un fabbisogno europeo di circa 400 miliardi di metri cubi l’anno, ne garantisce circa 130. Prima della crisi, ne forniva addirittura 160. Come prevedibile, gli Stati Uniti, uno dei maggiori produttori di gas naturale al mondo, si sono canditati per offrirci, almeno in parte, un’alternativa. La promessa di Biden è di aumentare subito le esportazioni americane in Europa di 15 miliardi di metri cubi l’anno, e garantire almeno 50 miliardi entro il 2030. Non sembra un piano infattibile, almeno stando agli analisti. “Se l’Europa continua a importare gas naturale liquefatto dagli Usa alla media del primo trimestre, alla fine del 2022 ne importerà molto più di 15 miliardi di metri cubi”, ha spiegato Massimo Di Odoardo, vice presidente del comparto gas di Wood Mackenzie, una società di ricerche sull’energia. 

Gli Usa provano a stabilizzare anche il mercato del petrolio, accelerando la produzione interna e chiedendo – con alterne fortune – ai maggiori attori esteri di fare di più. Se non altro, grazie all’incoraggiamento occidentale, Saudi Aramco, la più grande società petrolifera al mondo, sta aumentando gli investimenti a 40-50 miliardi di dollari l’anno. A un certo punto, l’amministrazione Biden ha cominciato a blandire pure Nicolás Maduro, despota del Venezuela, nonché paria internazionale, ma a capo di un Paese che nel 2005 forniva il 4% del greggio nel mondo. Poi Biden, colto da ingiurie bipartisan (“non si può scambiare un dittatore sanguinario con un altro”, devono avergli detto), ha fatto marcia indietro.

La crisi climatica

Lo sostanza però non cambia: i governi di tutto il mondo si affrettano a trovare più combustibili fossili possibile, per quanto inquinanti per l’ambiente o dolorosi per l’orgoglio. C’è anche un insospettabile ritorno del carbone, carburante sporco per antonomasia. A marzo una tonnellata è arrivata a costare 400 dollari, quando a inizio 2022 valeva meno di 100. Ma la concorrenza per metterci le mani sopra è assai dura, anche perché si cerca di prendere le distanze da quello russo. Un discorso analogo vale per il petrolio. I trader molto spesso si tengono lontani da Mosca, a prescindere dall’embargo, perché temono che avere rapporti con società russe comporti ostacoli nella logistica, danni reputazionali e guai legali. Già dall’inizio di aprile, 1,5 milioni di barili al giorno di petrolio degli Urali hanno faticato a trovare acquirenti, secondo i calcoli dell’Agenzia internazionale per l’energia. 

E nel frattempo l’ambiente soffre. Un recente rapporto dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, afferma che la finestra temporale per raggiungere gli obiettivi climatici dell’Onu sta svanendo. Le emissioni devono raggiungere il picco entro il 2025. Altrimenti, tenere la crescita del riscaldamento globale sotto il limite di due gradi, obiettivo degli accordi di Parigi, diventa impossibile. Secondo molti, quindi, dalla guerra si può ricavare un’unica vera lezione: bisogna affrancarsi da tutti i combustibili fossili, non solo da quelli russi, verso la libertà delle fonti pulite (anche il nucleare sembra tornato di moda), ma soprattutto rinnovabili. Il problema è che questo Eden di emancipazione, in realtà, non esiste. L’energia verde ha bisogno del suo carburante. Se vogliamo avere un mondo a zero emissioni nette entro il 2050, per quella data eolico e solare dovranno rappresentare il 70% della produzione di energia, contro il 9% del 2020. Tutto ciò si traduce in un’enorme domanda di metalli – cobalto, rame, nichel, etc. – decisivi per il funzionamento di tutte le tecnologie verdi, dalle batterie delle auto elettriche all’alimentazione delle rinnovabili. Si stima che il mercato di quei metalli aumenterà di quasi sette volte entro il 2030. Il nuovo mondo, però, ha qualcosa di simile al vecchio: le materie prime che lo faranno funzionare sono distribuite in modo poco uniforme. Alcuni Paesi sono benedetti da vasti giacimenti, altri sono meno fortunati.

Dove sono le materie prime verdi

Questa transizione porterà guadagni cospicui a una serie di Stati – in alcuni casi poveri o autoritari – che potrebbero a breve diventare noti come “superpotenze delle materie prime verdi”, secondo la definizione dell’Economist. Secondo il periodico britannico, questo club ha buone probabilità di intascare oltre 1.200 miliardi di dollari l’anno entro il 2040. La produzione, esattamente come per gli idrocarburi, sarà molto concentrata: i primi dieci Paesi avranno una quota di mercato superiore al 75% di tutti i minerali della transizione verde. In alcuni casi si tratta di democrazie, come l’Australia – fortunatissima, ha tutti i metalli che servono – o il Cile, che nel deserto di Atacama ospita il 45% delle riserve mondiali di litio e il 25% dei depositi di rame. Poi democrazie più povere, e forse più vulnerabili all’effetto distorsivo di flussi improvvisi di denaro. Ad esempio l’Indonesia, che siede su montagne di nichel, e il Perù, dove si trova almeno un quarto delle riserve globali di argento e abbonda il rame. Nelle Filippine si produce circa il 15% del nichel, in Russia il 10%. Il Messico ha più del 20% della disponibilità mondiale di argento.

Tra le dittature spicca la Cina, che ha molto rame e quantità notevoli di alluminio e litio. La Cina produce anche metà dell’offerta di terre rare, il gruppo più ‘potente’ dei metalli necessari all’economia verde e digitale. Ospita, per esempio, oltre il 60% delle disponibilità globali annue di grafite (che serve per le batterie) e di vanadio (un superconduttore). Ma il vantaggio cinese non si limita a questo: Pechino farà valere anche la sua posizione dominante nella lavorazione e raffinazione di questi minerali critici. Un’altra autocrazia dotata di grandi risorse è il Congo, con il 46% delle riserve e il 70% della produzione mondiale di cobalto.

Petrostati e nuove superpotenze

Già da questi numeri – un solo Paese produce la stragrande maggioranza dell’offerta globale di cobalto, un altro la metà delle forniture di litio, un altro ancora la metà delle terre rare – si intuisce il potere coercitivo che alcuni stati potrebbero avere. Al contrario, i tre più grandi produttori di petrolio – Russia, Arabia Saudita e Stati Uniti – rappresentano ciascuno solo il 10% dell’offerta mondiale. Paesi più deboli, come il Congo, potrebbero essere riluttanti a esercitare pressioni usando la loro forza “minerale”, ma altri, come la Cina, hanno già dimostrato la volontà di farlo. Ne è la prova ciò che è accaduto nell’estate del 2010: Pechino, a causa di attriti crescenti nel Mar cinese orientale, bloccò le esportazioni di minerali critici verso il Giappone e colpì così alcuni settori chiave dell’industria tecnologica. 

Questo, però, non significa la fine dell’influenza dei petrostati. Nei prossimi 10-20 anni, la transizione energetica offrirà a questi Paesi l’opportunità di esercitare un potere geopolitico ed economico significativo (sempre che non si avventurino in piani scellerati di politica estera, tipo una guerra). Questo potere, scrivono Meghan L. O’Sullivan e Jason Bordoff in un articolo su Foreign Affairs, aumenterà prima di diminuire. La loro tesi, a prima vista, ha l’aria di un paradosso. Un’economia globale alimentata da rinnovabili non dovrebbe togliere peso a chi esporta idrocarburi? Nel lungo periodo andrà così, riflettono i due studiosi, ma solo alla fine della transizione, quando il mondo avrà raggiunto e superato l’obiettivo delle zero emissioni nette di anidride carbonica. E per allora, i petrostati potrebbero comunque evitare il declino adattando la loro economia al nuovo paradigma. C’è poi da considerare un altro fattore: petrolio e gas, anche in un mondo decarbonizzato, non spariranno. Verranno usati meno, ma qualcuno dovrà comunque produrli. Nel frattempo, però, l’urgenza di inquinare meno sta portando le forniture di petrolio a scendere più di quanto faccia la domanda. O addirittura a diminuire mentre la domanda continua a crescere, come è successo nel 2021. Tutto ciò provocherà carenze periodiche, che a loro volta si tradurranno in prezzi di gas e petrolio volatili e al rialzo.

Il futuro del petrolio

I petrostati ne approfitteranno. Si calcola che nel 2050 – se davvero il pianeta raggiungerà le zero emissioni nette – circoleranno comunque circa un quarto del petrolio e metà del gas usati oggi. Gli ultimi produttori a restare in piedi saranno quelli in grado di contenere i costi. Forniranno una quota crescente di una torta che si contrae. Secondo l’Economist, i membri “a basso costo” dell’Opec, inclusi Iran, Iraq e Arabia Saudita (più la Russia), vedranno la loro fetta di mercato crescere dal 45% di oggi al 57% nel 2040. E ciò lascerà loro parecchia influenza geopolitica, almeno fino a quando la domanda di idrocarburi non scenderà a livelli più bassi. Altri Paesi, come Stati Uniti, Brasile e Canada, sono destinati a guadagnare meno dai combustibili fossili, ma potranno rifarsi attingendo a vasti giacimenti minerari.

Alcuni petrostati, in ogni caso, sembrano pronti a diversificare, o almeno ci provano. L’Arabia Saudita, per esempio, dice di voler attrarre 170 miliardi di dollari di investimenti nel settore minerario entro la fine del decennio. Punta anche sull’idrogeno ed è uno dei primi Paesi a commercializzarlo oltre confine, assieme ad Australia, Cile e Giappone. Cosa che potrebbe permettere di fissare sin dall’inizio standard e certificazioni per questo carburante: un grosso vantaggio.

Che cosa frena gli investimenti

Per quanto riguarda i metalli, il problema è che non ce ne sono abbastanza. Tirarli fuori dalla terra è un processo lungo e complicato, che richiede parecchi soldi. Ecco cosa potrebbe impedire l’emergere di nuove superpotenze verdi: la penuria d’investimenti. Si stima che la costruzione delle principali miniere messe in funzione nell’ultimo decennio abbia richiesto, in media, 16 anni. Ma bisognerà costruirne di nuove, e in fretta, per soddisfare tutta la domanda dei prossimi decenni. Secondo calcoli di Wood Mackenzie, il mondo dovrà spendere duemila miliardi di dollari entro il 2040 per l’esplorazione e la produzione di metalli verdi. Significa, spiega l’Economist, che solo per scavare abbastanza rame e nichel serviranno 250-350 miliardi di dollari di spese in conto capitale ben prima del 2030. Una domanda sorge spontanea: se il mercato è così promettente, perché non ci sono abbastanza investimenti?

Uno dei motivi è che i colossi minerari, rimasti scottate da precedenti crolli delle materie prime, sembrano essere più cauti. Non si fidano, aspettano che i prezzi salgano ancora. Tendono a distribuire profitti agli azionisti invece di reinvestirli. Forse la difficoltà è dovuta alle loro limitate capacità di spesa, visto che anche grandi società minerarie non riescono a finanziare più di un solo grosso progetto alla volta. Si attende quindi l’ingresso di attori diversi per dare una scossa al settore. Per esempio Tesla, le cui batterie per auto dipendono da minerali scarsi, ha promesso di comprare la futura produzione di nichel delle miniere in Australia, Minnesota e Nuova Caledonia. Potrebbero partecipare alla corsa anche società di private equity ed entità sostenute dagli stati col compito di garantire l’approvvigionamento energetico. In questo, la Cina sembra avanti a tutti. A Kolwezi, nel territorio del cobalto in Congo, i gruppi di Pechino si sono accaparrati la maggior parte dei grandi depositi commerciali, e anche moltissime miniere di dimensioni più piccole. Lo stesso è accaduto in Indonesia, dove i minatori cinesi abbattono la foresta per estrarre il nichel. E quando serviranno ancora idrocarburi, li fornirà la Russia. Isolata, Mosca si rivolgerà sempre più al mercato cinese per scaricare le sue forniture, favorendo così un definitivo allineamento con Pechino.

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