Flavio Briatore
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Flavio Briatore, imprenditore da corsa: “Torno in pista per aiutare la Formula 1”

I concetti sono chiari, fermi. Espressi senza peli sulla lingua, senza riverenze. Altrimenti Flavio Briatore non sarebbe lui. Imprenditore di successo, ma prima ancora manager di successo, ha spaziato e spazia dalla moda alla Formula 1, dall’intrattenimento alla ristorazione. Ogni volta che parla fa discutere, persino sulla pizza. Non ama le mezze misure. Però gli piace coinvolgere, condividere. I manager e i dipendenti per lui sono una squadra. Devono essere motivati e lavorare tutti insieme, al di là dei ruoli, per raggiungere il risultato finale: il profitto. In fondo è il profitto che muove il mondo e genera ricchezza, posti di lavoro, benessere. Con un cruccio: in Italia è difficile lavorare. Troppa burocrazia, troppe tasse. E allora meglio l’estero: Dubai, Qatar, Abu Dhabi, Arabia Saudita. Lì, dice, fare l’imprenditore è tutta un’altra cosa. E poi ci sono i soldi, la materia prima. Però, dopo avere investito in Italia, sei allenato per affrontare qualunque altra situazione: per questo gli imprenditori italiani hanno così tanto successo all’estero. Questo è un assaggio di Briatore. E quella che segue è l’intervista realizzata da Forbes.

Qual è stato l’incontro più proficuo nella sua carriera?
Di sicuro quello con Luciano Benetton. Mi ha dato un’opportunità. Io ero uno dei rappresentanti Benetton negli Stati Uniti e mi ha chiesto di andare in Inghilterra, dove non ero mai stato, a vedere l’investimento che avevano fatto in un team di Formula 1. Sono andato a Londra, ho visto il team e dopo cinque-sei mesi abbiamo firmato un contratto con loro. Inizialmente ero direttore marketing e commerciale, ma dopo pochi mesi sono diventato amministratore delegato della squadra.

E da lì è iniziata la sua corsa al successo. Cos’è la ricchezza per lei? E come si raggiunge? 
La ricchezza è quella cosa che ti permette di avere i dottori migliori, di vivere una vita confortevole, ma si raggiunge con tanto lavoro, per cui non hai neanche il tempo di godere la bellezza delle cose che hai. La ricchezza è creare ricchezza attorno a te, avere intorno molta gente che grazie a te è diventata benestante. Però più sei ricco e più investi, e quindi devi stare attento a proporzionare gli investimenti, altrimenti sei sempre a rischio. Diciamo che la ricchezza fa vivere nel comfort la tua famiglia. Ecco, forse chi gode di più della ricchezza sono mio figlio e le persone vicine a me. Perché quando lavori 12 ore al giorno non puoi sfruttare tutti i vantaggi che l’essere ricco ti dà. Puoi anche avere due o tre case, ma se poi non hai il tempo per andarci…

È più facile trovarla o perderla?
Metterei le due cose alla pari. Perché tu crei, cominci dal piccolo per poi passare al grande, però sei sempre a rischio, perché gli investimenti che fai sono proporzionali alla ricchezza che hai in quel momento. È una caratteristica degli imprenditori: vuoi sempre fare di più, ma perché vuoi fare di più? Perché nel dna degli imprenditori c’è l’idea di creare posti di lavoro, di pensare, di avere un’idea e realizzarla. Questo è il piacere di chi investe, il piacere di un imprenditore.

Per dirla con lei: se nella vita non hai i soldi, sei fuori?
Io credo che la ricchezza si crei investendo, così assumi la gente e annulli la povertà. Per cui tutta la polemica che c’è stata sui poveri che non creano ricchezza non ha senso. Per combattere la povertà ci vogliono gli investimenti, i posti di lavoro. Non possiamo avere un Paese dove si vive di elemosina. Per cui la ricchezza la crei agli altri dando posti di lavoro con stipendi adeguati.

Ha dichiarato che in Italia c’è una rabbia sociale enorme. Da che cosa nasce?
L’Italia è un Paese con una mentalità ancora comunista. Montanelli diceva che, se vedi una Ferrari ferma al semaforo, la prima cosa che ti viene in mente è di bucare le gomme o di rigare lo sportello. Senza pensare che chi è arrivato ad avere quella Ferrari è uno che ha lavorato molto, ha investito, ha creato posti di lavoro. Poi invece ci sono i ricchi storici, le grandi famiglie, che hanno portato via le aziende dall’Italia, ma nessuno protesta. Sono tutti contenti, sono intoccabili. Chi ha fatto i soldi come Briatore o Berlusconi non entra nel gotha degli intoccabili. Questa è l’Italia, un Paese di invidie, di gelosie, di rancore.

Un lavoro, di qualunque tipo, va accettato anche con uno stipendio da fame?
Non sono d’accordo sullo stipendio da fame perché quando uno lavora deve avere uno stipendio adeguato. Però, quando sei giovane, qualunque lavoro può andar bene. Non devi per forza trovare il lavoro che ti piace, per quello c’è tempo dopo. Qualunque lavoro lo devi fare e poi nella tua evoluzione, se sei bravo, se fatichi, se fai sacrifici, troverai il modo di coronare i tuoi sogni. Ma se non inizi, è difficile che qualcuno ti venga a cercare.

Qual è il suo stile manageriale? Le piace delegare?
Io sono uno sleeping partner con gli occhi aperti. Delego, ma fino a un certo punto, perché poi io so tutto di quello che succede nel mondo delle nostre attività. Faccio decine di telefonate tutti i giorni ai miei manager e so esattamente quello che succede. Quando i manager più vicini a me mi dicono cos’è successo ieri a Dubai, io rispondo che lo so già perché ho parlato con chi è sul territorio. Parlo sempre personalmente con chi è sul posto, così mi faccio un’idea precisa.

È passato attraverso varie vite professionali: moda, Formula 1, adesso ristorazione e intrattenimento di lusso. Come si fa a spaziare in mondi così diversi e avere uguale successo?
Il prodotto finale non è importante. Conta di più il processo per arrivare a un prodotto, che può essere la Formula 1, l’abbigliamento, il food and beverage, perché alla fine tu gestisci le persone che creano e sono parte delle società. Tu le devi ascoltare, motivare, innaffiare come piante. Se le innaffi, crescono. Se invece le trascuri, non crescono. Il prodotto finale non cambia: può essere una carta di credito, un ristorante, una pizzeria, un team di Formula 1, tu gestisci sempre persone. Sono loro che creano e sviluppano, non io.

Il sistema calcio vive un momento di grandi difficoltà economiche. Lei ha guidato con successo il Queens Park Rangers. Come si fa a guadagnare nello sport?
Bisogna comprare basso e vendere alto (ride). Ho avuto la fortuna di avere una squadra in Inghilterra e l’opportunità di guadagnare. Abbiamo preso una squadra dalla Serie B inglese e l’abbiamo portata in Premier League. A quel punto abbiamo deciso di uscire. Abbiamo anche fatto male, perché oggi quella squadra vale dieci volte il prezzo a cui l’abbiamo venduta. Però avevo troppi impegni, non ce la facevo a seguirli tutti: avevo insieme la Formula 1 e il Queens Park Rangers. La domenica, con le gare e le partite, era un incubo. Ho rinunciato al calcio anche perché ero in società con bravissimi imprenditori, che però non se ne occupavano per niente.

Perché questa forte espansione del suo gruppo in Medio Oriente?
Primo, perché lì ti fanno lavorare. Non ci sono burocrazia e vincoli asfissianti come nel nostro Paese. In Italia vige sempre una parola: ‘no’. Questo non si può fare, per questo si deve aspettare. Ci vogliono mesi, se non anni, per far passare un progetto. Mille uffici devono approvartelo, poi in corso d’opera possono cambiarti le regole. Proprio per questo in Italia la presenza del nostro gruppo è molto limitata: investiamo dove ci lasciano lavorare e apprezzano il lavoro che facciamo, perché creiamo posti di lavoro e ricchezza. Secondo, sono Paesi che fiscalmente ti lasciano grandi utili, perché esigono una minima parte di tasse. La terza cosa è che, quando si va in Arabia Saudita, ad Abu Dhabi, a Dubai o in Qatar, gli investitori vengono accolti con un approccio del tutto diverso, di piena collaborazione, vengono aiutati. E poi ci sono i soldi. L’imprenditore deve andare dove c’è la materia prima e la materia prima sono i soldi. In Italia abbiamo due Crazy Pizza e adesso ne apriranno altri in licenza, poi abbiamo il Billionaire in Sardegna che è stato un po’ l’inizio di tutto, e quindi lo manteniamo anche per ragioni affettive. Però altri investimenti in Italia non ne facciamo perché, per esempio, a Roma sono sei mesi che non riusciamo ad avere le autorizzazioni, sempre per un cavillo. Non puoi perdere tempo a parlare con burocrati che cercano in qualunque modo di non farti fare le cose. Per cui, avendo la possibilità di operare altrove, andiamo in altri Paesi.

Chi sono gli imprenditori italiani e stranieri ai quali si sente più vicino?
Gli imprenditori parlano tutti la stessa lingua, poi io magari dico le cose in modo più diretto, anche perché posso permettermelo. Chi ha molti investimenti in Italia deve avere un approccio diverso. Un imprenditore deve fare utili da reinvestire. Il bello è che quando un imprenditore italiano va all’estero, non gli sembra vero di poter lavorare con le regole di quel Paese. Con la frustrazione che provi misurandoti con le difficoltà italiane, se riesci a superarle, quando vai all’estero diventa tutto più facile. Gli italiani sono bravi in tutto il mondo proprio per questo, perché si sono allenati con il sistema italiano. Dopo, tutto è più facile.

Quali sono le caratteristiche di un buon manager? 
Ascoltare, capire. Un buon manager, quando entra in una società, deve avere alcuni mesi per capire cosa succede e dove è arrivato. Poi la linea la dà l’imprenditore, ma il manager deve essere bravo a far capire a tutti che sono parti integranti del progetto. Deve coinvolgere i suoi collaboratori, da chi sta più in alto a quello con le mansioni più umili. In un’azienda i dipendenti sono tutti importanti. Un buon manager deve fare in modo che tutti sposino il progetto e che si immedesimino in lui e nell’azienda. Deve aiutarli a migliorare la loro qualità di vita. Un manager deve accompagnare i suoi collaboratori a ottenere quello che pensano sia giusto avere.

Secondo lei dove arriva il manager e dove comincia l’imprenditore?
È la stessa roba. Non si nasce imprenditore, o almeno è molto difficile. Nel mio caso, sono nato come manager e conosco molti manager che sono diventati imprenditori. In casa abbiamo manager che potrebbero essere – e tra qualche anno saranno – imprenditori. Quando vedo un manager che può diventare imprenditore, cerco di coinvolgerlo con partecipazioni, bonus, benefit. Quando individui uno bravo, devi tenerlo e quindi devi dargli la possibilità di ottenere le soddisfazioni che merita. Poi puoi anche fare società con lui: tu investi e lui gestisce.

Chi è la donna che ha contato di più nella sua vita?
La madre di mio figlio. È un rapporto che durerà per sempre, anche se siamo divorziati. Ho avuto diverse relazioni e ho anche avuto una figlia da Heidi Klum, ma Elisabetta Gregoraci è la donna più importante, con cui ho un legame che durerà tutta la vita, perché il legame è nostro figlio Falco.

Dica il nome di una donna che vorrebbe come partner in affari e una come partner per una cena al Billionaire.
Per la cena al Billionaire ce ne potrebbero essere tante (ride). Anche di brave donne manager ce ne sono tante. Tra queste, conosco bene Emma Marcegaglia e lei è una donna con cui farei società.

In Italia si pagano troppe tasse? Cosa bisognerebbe fare per abbassare e aumentare il livello dei servizi?
In Italia paghiamo troppe tasse sul lavoro. Gli stipendi sono bassi, molto bassi, però in Italia non hai la possibilità di licenziare. Sono d’accordo con chi propone di aumentare i salari, anche con aumenti consistenti, ma chi ne beneficia deve essere parte del progetto. Per un manager, licenziare qualcuno è la cosa peggiore che possa succedere. Sei felice quando assumi, non quando licenzi. E un manager bravo non manderà mai via qualcuno che lavora bene. Quindi diciamo che potremmo aumentare i salari abbassando le tasse a carico dell’azienda, ma questi soldi dovrebbero finire ai dipendenti. In Italia le tasse sul lavoro sono enormi: un dipendente che porta a casa 1.500 euro, che non sono molti, all’azienda costa più di 3mila euro. E pure con tutte queste tasse, non vediamo ospedali che funzionano, treni che funzionano, un Paese che funziona. Sono soldi buttati via. Il livello giusto di tassazione, per me, dovrebbe essere intorno al 27-28%. Credo che pagherebbero tutti, perché non è che la gente non voglia pagare le tasse, ma non vuole pagare tasse troppo alte. Ormai per un’azienda siamo sopra al 60%. Impossibile.

È d’accordo con Draghi, che ha detto che, chiunque governi, alla fine l’Italia ce la farà?
Non sono d’accordo. Per gestire un Paese complicato come il nostro ci vuole gente brava. E sono anni che non abbiamo politici all’altezza. Abbiamo bisogno di politici capaci, che sappiano fare scelte coraggiose e controcorrente. Prendiamo, per esempio, le grandi aziende pubbliche italiane: sono sempre gestite dai soliti noti. Sono sempre gli stessi 10-15 manager che si spostano da una società all’altra. Anche se fanno danni in un settore, subito li mettono a capo di un altro. Perché è tutta gente legata alla politica. Il problema vero dei manager è che dovrebbero essere slegati dalla politica e lavorare per il bene dell’azienda, creare valore aggiunto e miliardi di utili. Però ci vogliono manager che non hanno il tetto dei salari, che sono pagati come li pagano negli altri Paesi. Quelli bravi vanno pagati, perché non solo sanno fare il loro mestiere, ma anche perché non fanno danni.

Bene, l’intervista è finita. Adesso però ci anticipi la sua prossima avventura.
Sono da poco diventato ambassador della Formula 1. Seguo tutta la parte intrattenimento, stiamo rivoluzionando il Paddock Club, che si chiamerà Privé, e mi occupo anche di sviluppare i gran premi in nuovi Paesi. Grazie a Stefano Domenicali, che è stato bravissimo, grazie agli americani di Liberty, a Netflix, la Formula 1 non ha mai avuto la popolarità che ha in questo momento. La parte che era rimasta un po’ indietro era proprio l’intrattenimento per gli ospiti. Ci stiamo lavorando. Avremo il primo esempio ad Abu Dhabi.

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