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Neutralità politica, regole indulgenti, oligarchi in fuga: oggi gli Emirati Arabi sono il nuovo centro del mondo

C’è una guerra, c’è una crisi energetica, l’Occidente si prepara a un duro inverno, l’economia cinese rallenta. Nella penisola araba, invece, l’umore è frizzante e ricco di promesse. A Dubai, i facoltosi espatriati e cittadini locali sono tornati dalle vacanze estive. In autunno la città si rimette in movimento dopo l’estate languida e caldissima. Ma il mercato immobiliare in realtà non si è mai fermato. I broker trascorrono da mesi giornate frenetiche. E la notte stappano champagne. Uno di loro ha raccontato alla Cnbc di avere incassato più di un milione di euro in tre mesi da clienti russi che cercavano casa. Quest’anno negli Emirati Arabi Uniti, una federazione di sette membri che include Dubai, si stabiliranno quattromila nuovi residenti milionari, più che in qualsiasi altro Paese.

La cosa che balza agli occhi – e gonfia i bilanci delle società di real estate – è l’afflusso di compratori russi (ma anche di quelli provenienti dalla Comunità degli Stati Indipendenti, Csi, un gruppo di nove paesi dell’ex Unione Sovietica che si estende dall’Europa orientale al Caucaso e all’Asia centrale). Nella prima metà del 2022, si legge sull’Economist, i russi hanno acquistato più del doppio delle case a Dubai rispetto all’intero 2021. Nel frattempo le marine si riempiono di yatch e negli aeroporti indugiano i jet degli oligarchi.

La carta della neutralità

Non è difficile capire perché: scoppia la guerra in Ucraina e Dubai resta neutrale (insieme a tutti gli altri Emirati). Niente sanzioni, e i russi danarosi cambiano indirizzo. Addio Londra, benvenuti nell’oasi costruita nel deserto: Dubai, un grande porto franco in mezzo a divisioni e sconvolgimento geopolitico. Contano gli affari, non la nazionalità del passaporto.

La città era in ottima posizione già prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Altri centri finanziari perdevano smalto. Hong Kong sempre meno attraente, risucchiata dall’orbita cinese e azzoppata dalle lunghe restrizioni contro il Covid-19. Londra, un po’ in discesa per la Brexit, ha chiuso le porte al capitale russo ribaltando una politica di accoglienza decennale. A Dubai le restrizioni bancarie non sono un ostacolo, la Borsa inanella successi: il mercato azionario è aumentato del 9% quest’anno. Grandi aziende, sia locali che multinazionali, stanno spostando lì le loro operazioni. Banche come Goldman Sachs e Bank of America hanno trasferito in città i dipendenti che risiedevano a Mosca. Diverse società di materie prime, racconta l’Economist, stanno valutando di emigrare dalla Svizzera perché ha aderito alle sanzioni europee contro la Russia.

La neutralità nella guerra attira anche l’arbitraggio sul petrolio. Sulle coste degli Emirati si fa arrivare il greggio russo a prezzi di favore, lo si raffina per rivendere il prodotto finito a cifre più molto più alte. C’è qualcuno che prova a imitare queste strategie: la Turchia di Erdogan, pur essendo membro Nato, si mantiene neutrale. Niente sanzioni, e in effetti nei locali di Istanbul l’accento russo è diventato frequente. L’attrattiva turca, però, è limitata dal crollo della valuta e dall’aumento dell’inflazione. Può attirare una classe media in fuga che si stabilisce negli appartamenti graziosi di Cihangir. Ma i professionisti ricchi preferiscono gli Emirati, dove la moneta è stabile e ancorata al dollaro, il debito pubblico è il 30% del Pil, l’inflazione un più che ragionevole 4%. E l’imposta sul reddito, ricorda l’Economist, è allo 0%: impossibile da battere.

Tutti i comfort per gli oligarchi

Dubai offre tutti i comfort a cui ambiscono gli emigrati russi, anche se il clima torrido può essere uno shock. Ci sono abitazioni di lusso con domestici già pronti a servizio, boutique di design nei centri commerciali, chef rinomati negli alberghi. A Caviar Kaspia, un bistrot francese “con influenze russe” nel distretto finanziario, si possono ordinare patate al forno ripiene di caviale. La più cara costa 700 dollari. Questi vantaggi e amenità si sono ingraziati uomini d’affari da svariate parti del mondo. Dubai si è trasformata in un centro finanziario che serve non solo il Medio Oriente, ma anche i mercati asiatici e africani. Molti finanzieri e avvocati sono indiani, risiedono in città, oppure la raggiungono in tre ore da Bombay per chiudere accordi internazionali. Ci sono anche più o meno settemila italiani. Godono di agevolazioni fiscali, buona sanità e scuole decenti per i figli.

Allo stesso tempo, però, l’apertura, le regolazioni indulgenti e la gran quantità di soldi attirano business di ogni tipo, compresi quelli illeciti. Secondo il Carnegie Endowment for International Peace, un think tank di Washington, alla base della prosperità di Dubai c’è anche “un flusso costante di proventi illeciti derivanti da corruzione e criminalità: la città è un magnete per il denaro sporco”. La lista è lunga: “Signori della guerra afgani, mafiosi russi, cleptocrati nigeriani, riciclatori di denaro europei, criminali iraniani e contrabbandieri d’oro dell’Africa orientale”.

Normative deboli, applicazione lassista

Il mercato immobiliare di Dubai, i condomini e le isole artificiali sono un modo perfetto per riciclare quattrini. Normative deboli e applicazione lassista fanno sì che si possa comprare senza molti controlli. Il riciclaggio avviene anche attraverso il commercio, perché a Dubai ci sono 30 zone di libero scambio. Queste, insieme a supervisioni doganali minime, consentono alle aziende di dissimulare i proventi del crimine tramite documenti falsi e la fatturazione multipla o gonfiata delle merci. E spesso sono trattati come merce anche molti lavoratori migranti, impiegati nelle mansioni più umili del real estate e dei servizi. A Dubai, come nel resto degli Emirati, è in vigore il sistema del Kafala: una pratica di reclutamento (a ogni migrante è assegnato uno sponsor emiratino) che secondo gli attivisti è per certi versi simile alla tratta degli esseri umani.

E poi c’è il contrabbando di oro. Oro estratto artigianalmente, soprattutto dalle zone di guerriglia dell’Africa orientale e centrale, che arriva in città grazie a scappatoie normative ed entra nei mercati mondiali su vasta scala. Un tempo si stimava che il commercio illegale dei lingotti valesse circa quattro miliardi di dollari all’anno. Il report del think tank americano punta il dito sulle autorità locali: avrebbero i mezzi e le capacità per fermare i reati, si legge, ma chiudono un occhio di proposito, come se le transazioni finanziarie illecite fossero parte integrante della politica economica di Dubai. E così a marzo la Financial Action Task Force, il principale organismo mondiale antiriciclaggio, ha inserito gli Emirati Arabi Uniti nella sua lista grigia di paesi “problematici”.

La denuncia non ha conseguenze formali e i banchieri dicono che ha cambiato poco la reputazione degli Emirati. Chi entra per fare business è già consapevole di certi rischi. Ma gli esperti della regione dicono che le autorità locali sono rimaste comunque scioccate e sperano che il paese sia tolto dalla lista il prima possibile. Così i funzionari governativi oggi chiedono alla banche di stare più attente, controllare il pedigree dei loro nuovi clienti, evitare almeno i russi sotto sanzioni occidentali. Ma il risultato potrebbe essere nient’altro che una scrematura basata sul patrimonio: rigore con i semplici benestanti e indulgenza, invece, con chi è davvero ricco.

L’irritazione americana

Gli Stati Uniti, almeno a parole, cominciano a sembrare un po’ insofferenti. I loro funzionari e diplomatici non hanno potuto non accorgersi che a Dubai attraccano e atterrano gli oligarchi vicini a Putin, con jet e yatch enormi. Gli Emirati Arabi sono uno dei partner più stretti di Washington nella regione, e in teoria non dovrebbero offrire scappatoie così vistose alle sanzioni occidentali contro la Russia. Quest’estate Wally Adeyemo, vice sottosegretario al Tesoro, con un tour in Turchia e Paesi arabi del Golfo, ha ricordato che gli Stati Uniti possono punire chi aiuta persone e società sanzionate. Gli Emirati, dal canto loro, hanno assicurato collaborazione. È davvero così? Le società coinvolte nell’apertura di business e nell’ottenimento di visti per i nuovi residenti russi dicono che i controlli ci sono, spesso ritardano anche l’apertura dei conti e il trasferimento di denaro. Ma molti individui, soprattutto i più ricchi, superano questi ostacoli agevolmente e cominciano le loro attività senza grandi patemi.

Dubai, d’altronde, aveva a lungo resistito alla pressione americana per sanzionare l’Iran, di cui aiuta anche a vendere il petrolio. Gli Usa ogni tanto fanno scattare qualche sanzione e colpiscono piccole imprese, spesso proprio per i rapporti con Teheran. Ma sono gesti poco più che simbolici, spiegano gli esperti. Gli Emirati Arabi Uniti, ne sono convinti molti americani, sono un partner troppo importante nella regione. E a questo ha contribuito l’avvio di legami diplomatici con Israele, con gli accordi di Abramo del 2020. Dubai è nella posizione di trarne vantaggio: gioca di sponda, tende una mano all’Iran e fa lo stesso con businessman russi, come un moderno porto franco. La sua economia ha seguito il modello Singapore: commercio, logistica, finanza, costruzioni, manifattura, turismo. Manca qualcosa?

La partita dei carburanti fossili

In mezzo ai più grandi produttori di idrocarburi, Dubai ha scelto una strada diversa. In un certo senso si è proiettata verso il futuro. La produzione di petrolio un tempo rappresentava la metà del suo Pil, oggi appena l’1%. Ma gas e petrolio sono ancora il presente per i Paesi del Golfo. Anche loro stanno investendo in energia pulita e immaginano, a lungo termine, un’economia alternativa alle fonti fossili. Non ancora, però. Se la guerra in Ucraina premia l’apertura di Dubai, sta anche rimodellando i mercati mondiali dei carburanti fossili. E il Golfo sarà il grande vincitore.

Prendiamo il caso del gas naturale liquefatto. L’Europa lo cerca furiosamente per liberarsi dalla dipendenza e dal ricatto di Mosca. E chi si era preparato, con doti quasi profetiche, a garantire tali forniture di soccorso? Questo mese lo visiteranno migliaia di tifosi per i mondiali di calcio. È il Qatar. Ma una schiera di leader europei è già stata lì in processione a domandare gas al ministro dell’Energia, Saad al-Kaabi.

Il gas naturale del Qatar

Nel 2017 il Qatar, revocando un divieto lungo 12 anni, ha cominciato a sviluppare il più grande giacimento di gas naturale al mondo, la maggior parte del quale si trova sotto le acque del Golfo Persico. Un progetto da 30 miliardi di dollari chiamato North Field Expansion. Abbastanza rischioso, perché non era detto che la domanda sarebbe esplosa come poi è successo. Due anni dopo, nel 2019, troppa offerta sul mercato globale ha spinto il prezzo spot in Asia, dove il Qatar vende gran parte del suo gas, al livello più basso dell’ultimo decennio. Un anno dopo ancora, la pandemia: recessione e crollo della domanda hanno fatto scendere i prezzi del gas di un altro 20%, al minimo storico. “Aspettate e vedrete”, disse al-Kaabi a chi lo accusava di avere preso una cantonata. Secondo i calcoli del ministro, il mondo sarebbe tornato a bramare gas “entro il 2025”. Pronostico esatto. L’unico errore è che la fame è tornata prima.

Nel 2021 il rimbalzo dell’economia più rapido del previsto ha fatto crescere la domanda di gas naturale liquefatto, spingendo in alto i prezzi. Prezzi che nel 2022, con la guerra in Ucraina, sono saliti a livelli impensabili e hanno fatto partire per Doha delegazioni su delegazioni in cerca di rifornimenti. L’obiettivo del Qatar è quello di arrivare a produrre 126 milioni di tonnellate l’anno entro il 2027, cioè un terzo dell’attuale mercato globale di gas naturale liquefatto. Le esportazioni, però, restano ancorate a contratti a lungo termine, perlopiù destinati all’Asia. Ad agosto il Qatar ha inviato all’Europa due milioni di tonnellate, solo un quinto del totale spedito in quel mese.

Per la sicurezza delle forniture europee, gli analisti incoraggiano a stipulare contratti a lungo termine con i produttori. Questo perché l’industria del gas richiede investimenti lunghi, che impiegano mesi o anni per entrare a regime. Ma l’Europa sembra restia ad abbandonare le vecchie abitudini. Preferiva comprare grosse quantità di gas ai prezzi spot del momento. Conveniva: comprare spot era meglio che contrattare, per via dei prezzi bassi. Oggi non è più così, la crisi energetica ha cambiato le carte. Eppure l’Europa resta affezionata alla flessibilità del mercato. Un produttore di gas, racconta l’Economist, ha descritto come “schizofrenico” l’atteggiamento del ministro dell’Energia tedesco: voleva disperatamente comprare del gas, “ma senza impegnarsi ad acquistare oltre il prossimo inverno”.

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