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Come le aziende devono trasformarsi per soddisfare il bisogno di creazione dei giovani

Quasi tutte le ricerche che analizzano le aspettative dei giovani nei confronti dei brand tendono a evidenziare temi quali l’attivismo sociale, la sostenibilità e il rispetto della diversità. Come ho scritto in un altro articolo pubblicato su Forbes, si tratta di aspettative e desideri forti – certamente giustificati -, che però sono superati da un bisogno ancora più forte, che potremmo definire ‘fisico’: il bisogno di creazione. I brand fino a oggi hanno cercato di soddisfare questo bisogno attraverso le cosiddette iniziative di ‘co-creazione’, la cui efficacia – se pur teorizzata da numerosi studi – si è rivelata in realtà piuttosto bassa.

Alcune ricerche recenti condotte in diversi settori hanno rilevato che oltre metà delle iniziative di co-creazione fallisce. Se da una parte nei settori industriali il co-design dei progetti è una prassi attiva da decenni, che ha generato enormi vantaggi, nei settori dei prodotti di consumo il coinvolgimento dei consumatori nelle fasi creative è molto più difficoltoso.

Da una parte ci sono ovvie difficoltà nel gestire idee di creazione che possono essere molto numerose, in alcuni casi contraddittorie o di difficile realizzazione. Alcune mie ricerche hanno anche evidenziato che, quando i giovani hanno sottoposto le loro idee ai brand, in un caso su due non hanno ricevuto risposta. Soprattutto, è emerso che – tra coloro che hanno partecipato alle iniziative di co-creazione – i bisogni di creazione sono ancora largamente insoddisfatti: meno del 30% afferma che i brand dimostrano attenzione ai loro bisogni di creazione. Allo stesso tempo, l’85% di questi giovani desidera fortemente avere l’aiuto dei brand per ‘creare il proprio futuro’.

Che cosa devono fare allora i brand per integrare le loro trasformazioni purpose driven per riuscire a soddisfare anche i bisogni di creazione dei giovani?

Le micro-comunità di creatori

Negli ultimi due-tre anni i giovani hanno iniziato ad abbandonare le piattaforme social tradizionali per migrare verso piattaforme che consentono una connessione più intima. Lo hanno fatto creando micro-comunità che permettono di vivere esperienze assieme ad altri giovani con i quali condividono interessi e passioni. Questo comportamento ha subito un’accelerazione così forte durante la pandemia che ormai i Gen Z trascorrono quasi l’80% del tempo online in questi ambienti digitali ’privati‘. Sono comunità che possono essere considerate come falò digitali, cioè luoghi di incontro che avvengono in mondi virtuali come Roblox e Fortnite, ma anche nelle app di messaggistica quali Discord, Twitch e Telegram, oppure in app di condivisione di foto, come BeReal, LiveIn e Locket.

I Gen Z amano appartenere a questi piccoli gruppi, dove possono apprendere, crescere e trovare supporto nei momenti di bisogno. Oltre il 60% di loro descrive queste esperienze digitali con frasi del tipo: “Appartengo a un piccolo gruppo di persone che sono proprio come me”.

Si tratta di un senso di appartenenza positiva che si riflette nelle decisioni dei giovani. In particolare, poiché tra i membri del gruppo esiste una comprensione profonda e condivisa di bisogni e desideri, questi giovani si fidano delle raccomandazioni del loro gruppo, sia per le decisioni che riguardano la vita privata, sia per quelle relative alla scelta di un prodotto o di un brand. D’altra parte, così come nella realtà fisica i gruppi sono guidati da un leader, anche queste comunità digitali hanno un leader, al quale gli altri membri del gruppo si ispirano e verso il quale nutrono una profonda fiducia. Può trattarsi di persone conosciute nella vita fisica, oppure – come sempre più spesso accade – di persone mai incontrate nella realtà. Alcuni di questi leader sono creatori, altri non lo sono ancora, ma desiderano diventarlo. Quando i leader sono anche creatori, i membri della comunità nutrono verso di loro una fiducia di gran lunga maggiore rispetto a quella per i creatori che non appartengono alla comunità.

L’influenza del leader

In un recente progetto che sto conducendo per un brand molto noto, è emerso ad esempio che oltre il 65% dei Gen Z prende decisioni sulla propria vita privata e su cosa acquistare – compreso quali brand scegliere – dopo averne discusso all’interno della propria comunità digitale. Queste decisioni sono influenzate da un creatore leader della stessa comunità in oltre il 75% dei casi. Se nella comunità non c’è un creatore, allora le decisioni sono influenzate da un creatore esterno suggerito dalla stessa comunità in oltre il 60% dei casi.

Questi creatori esterni alle comunità non sono i ‘creatori superstar’, cioè influencer molto famosi, quali PewdiePie, Mr. Beast, Ryan Kaji, Charlie D’Amelio o Khaby Lame, che hanno centinaia di milioni di follower, guadagnano milioni ogni anno e per un singolo post possono essere pagati oltre un milione di euro. Molto spesso si tratta di creatori che arrivano a guadagnare non più di 25mila euro all’anno, che però rappresentano circa il 65% del totale dei creatori digitali, cioè quasi 200 milioni di persone. È ancora è più interessante il fatto che l’ambito di competenza più frequente di questi creatori è quello dell’imprenditorialità, seguito dallo sviluppo personale. Si tratta, cioè, di una gigantesca rete tra comunità di persone con bisogni di creazione.

Che cosa possono fare le aziende

I brand dovranno quindi identificare le comunità più vicine ai loro valori, alla loro identità, e aiutare i creatori che ne fanno parte a svilupparle. Pertanto, le modalità tradizionali di gestione delle comunità di brand non saranno più applicabili, poiché queste micro-comunità digitali hanno obiettivi definiti e pilotati dai membri della comunità stessa e non da un brand che vuole farne parte. In altre parole, i brand potranno entrare a far parte di queste comunità solo se saranno in grado di dimostrare di poter aggiungere valore.

In particolare, per aggiungere valore, potranno fornire momenti di intrattenimento e divertimento, ma soprattutto mettere a disposizione conoscenze, spazi e strumenti per favorire lo sviluppo imprenditoriale e personale dei membri delle comunità, cioè aiutare a ideare e realizzare nuovi prodotti e servizi, sia fisici che digitali, vendibili sia nel mondo fisico che in quelli virtuali. 

Per fare questo, come ho indicato in un precedente articolo su Forbes in cui ho descritto il brand community mix, i brand potranno aiutare i Gen Z e le loro comunità, supportandoli anche nello sviluppo e nel lancio di social token, un tipo particolare di token fungibile che potrebbe essere ‘coniato’ dalle comunità e che consentirebbe di finanziare l’attività di sviluppo creativo. I social token potrebbero poi essere quotati sugli exchange di criptovalute, riflettendo così il valore attribuito dal mercato alle creazioni realizzate dalla comunità, e potrebbero fare da magnete per attirare nuovi creatori che condividono i valori e l’identità della comunità che li ha coniati. Il valore di mercato dei social token sarebbe così un chiaro indicatore del successo di una comunità che andrebbe a ricompensare i suoi giovani membri anche a livello finanziario.

Il contatto tra brand e pubblico

Il contatto tra un brand e il suo pubblico fino a oggi è sempre avvenuto secondo tempi, luoghi e modalità progettate e realizzate dagli stessi brand, oppure dai suoi distributori o dai retailer fisici e digitali. Se una persona vuole acquistare un abito di un brand che le piace, va in un negozio di quel brand oppure visita il sito web o il sito di un retailer digitale multimarca. Allo stesso modo, se vuole comprare un’auto va al più vicino concessionario del suo brand preferito, per una polizza assicurativa in un’agenzia della compagnia o sul suo sito web.

Se poi si pensa ai futuri luoghi di contatto nei mondi virtuali, da ciò che si è visto fino a oggi sembra che i brand intendano replicare gli stessi luoghi della realtà fisica. Se pensiamo a ciò che alcuni brand del settore fashion hanno mostrato in occasione della prima Fashion Week metaversiana, svoltasi in Decentraland alla fine di marzo dello scorso anno, si è trattato in sostanza di una replica virtuale dei negozi fisici. Tutto questo chiaramente contrasta con il desiderio dei giovani di assumere un ruolo più attivo nei confronti dei brand.

Creare ecosistemi esperienziali

Alcune tecnologie del cosiddetto Web3 potranno però consentire ai brand di dare finalmente concretezza alla cosiddetta economia dell’esperienza, trasformando i paradigmi della brand experience che abbiamo vissuto fino a oggi. I brand infatti potrebbero offrire al pubblico la possibilità di creare un ecosistema che premia i comportamenti e le esperienze che lo stesso brand intende rappresentare, dando la possibilità ai giovani di trasformarsi da semplici consumatori a creatori della loro relazione con il brand. Una relazione basata su preferenze, desideri e valori condivisi.

L’ecosistema esperienziale dovrebbe essere un ecosistema experience-to-earn (e2e), e dovrebbe fare leva su Nft sociali appositamente coniati dai brand. Quando una persona pratica il ‘giusto comportamento’ riceve un Nft sociale tanto più raro ed esclusivo quanto più rilevante e coerente è il comportamento che ha praticato.

Un brand potrebbe premiare l’acquisto di un prodotto digitale realizzato durante un’esperienza virtuale – replicando così i tradizionali programmi fedeltà -, ma anche premiare comportamenti praticati nella realtà fisica, che si tratti di esplorare un parco nazionale o di prendersi cura della propria salute fisica e mentale, oppure sostenere un’organizzazione benefica. In questo modo, invece di creare esperienze virtuali che ‘cannibalizzano’ quelle reali, i brand le renderebbero complementari, alimentando le passioni dei giovani verso gli interessi che già hanno ed esponendoli a esperienze nuove, uniche e intime.

Componente fisica e componente virtuale

I brand potrebbero inoltre premiare quei creatori che contribuiscono allo sviluppo del loro ecosistema esperienziale, sia nella componente fisica che in quella virtuale. Nella componente virtuale i brand potrebbero invitare i giovani che fanno parte del loro pubblico a creare singole parti dell’ecosistema operando in modo simile a quanto praticato già oggi da migliaia di giovani video-giocatori nelle piattaforme decentralizzate play-to-earn, oppure potrebbero premiare ‘comportamenti creativi’ praticati nelle micro-comunità digitali di cui fanno parte.

Nella componente fisica, ai creatori potrebbe essere invece lasciato campo libero nel proporre le esperienze che essi desiderano offrire al pubblico del brand, che si tratti di sessioni di yoga o di una scalata su una parete verticale artificiale, di un corso di fotografia o di un’attività di volontariato. L’ecosistema experience-to-earn rappresenterebbe così uno spazio illimitato per soddisfare l’appetito di creazione delle giovani generazioni, e sarebbe inoltre complementare a quanto già fanno nelle loro micro-comunità.

Come i social token emessi dalle comunità sono scambiabili sugli exchange di criptovalute, gli Nft sociali  potrebbero essere venduti in marketplace dedicati creati con il supporto dei brand e potrebbero dare la possibilità di accedere a esperienze dell’ecosistema e2e dello stesso brand o all’ecosistema e2e di altri brand. Il valore di mercato degli Nft sociali contribuirebbe così a sviluppare un circolo virtuoso in cui i comportamenti che alimentano la crescita personale e sociale servono come gettone d’ingresso per vivere esperienze sempre più ‘pregiate’ sia del mondo virtuale che della vita reale. Per finire, il valore di mercato degli Nft sociali sarebbe un chiaro indicatore del successo dell’ecosistema esperienziale di un brand che ricompenserebbe finanziariamente lo stesso brand, il suo pubblico e i giovani creatori membri dell’ecosistema e delle micro-comunità. Una straordinaria combinazione che alimenterebbe una continua generazione di valore per il brand e per i creatori che hanno contributo allo sviluppo dell’ecosistema.

Chi muove i primi passi

Sono già diversi i brand che hanno iniziato a fare i primi passi per aiutare i giovani creatori a soddisfare i loro bisogni di creazione. Due brand che stanno muovendosi in questa direzione sono Mattel e Nike. Queste due aziende hanno creato di recente comunità digitali in cui mettono a disposizione dei creatori strumenti e spazi per sviluppare prodotti dello stesso genere di quello del brand, cioè bambole e modellini di auto in scala, oppure sneakers digitali. MasterCard si è spinta oltre, creando una comunità che si pone l’obiettivo di aiutare i giovani musicisti a sviluppare la propria arte, ambito che nulla ha a che fare con i servizi offerti dall’azienda. Al Consumer Electronics Show di Las Vegas di gennaio, MasterCard ha presentato il Music Accelerator, un progetto basato sul Web3 che comprende anche un’attività di formazione per i giovani artisti che potranno apprendere come costruire (e possedere) il proprio brand attraverso gli Nft, rappresentare se stessi nei mondi virtuali e promuovere una comunità di fan.

Si tratta dei primi passi verso un futuro non più basato sull’economia dei consumi, bensì sull’economia della creazione, in cui sarà la creatività a definire l’intero ecosistema delle relazioni tra i brand e le giovani generazioni, sia nei mondi virtuali che nel mondo reale. I brand che creano valore non saranno quelli che producono cose utili e belle per i consumatori, ma quelli che aiutano i creatori a realizzare cose utili e belle.

Tutto questo significa che si dovrà ripensare profondamente il modo in cui le aziende sono gestite, i processi di sviluppo dei prodotti, quelli di marketing, vendita e comunicazione, nonché le metriche utilizzate per misurare le performance. Bisognerà considerare non solo il flusso di cassa e il profitto disponibile per gli azionisti, ma anche il valore economico e sociale che i creatori e il pubblico del brand sono stati in grado di generare grazie al contributo dello stesso brand. Il più potente generatore di crescita del market cap del brand sarà la crescita del market cap delle comunità create con il supporto del brand. È un immenso cambiamento di paradigma, sia economico che manageriale. Per raggiungerlo, tutto dovrà essere ripensato, anche quello che si insegna nelle business school.

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