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Così la cucina indiana vuole uscire dall’etnico e diventare di lusso

In un mondo in cui gli scenari globali, le zone d’influenza, le imprese e i super miliardari non hanno più confini, sono sempre di più gli ambiti in cui bisogna smettere di ragionare in divisioni tra occidente e oriente, e cominciare ad apprezzare le contaminazioni culturali.

Se c’è un soft power con cui l’Asia ha saputo elegantemente conquistare il mondo questo è senza dubbio quello della cucina, anzi, ad essere più precisi, le cucine. In principio è stata quella cinese ad aver (nella sua versione più povera) conquistato le grandi città europee e americane, con i suoi ristoranti e le gastronomie fino alle proposte delivery, per poi evolversi sempre di più in proposte fine dining, con ad esempio i raffinati Dim Sum.

Poi è arrivata quella giapponese con i suoi eleganti e minimali sushi, divenuti emblematici nel nuovo millennio. Ma a fianco di queste due scuole ce ne è una terza che tutti ben conosciamo ma che (a differenza di quella già citata del celeste impero) non ha ancora fatto il salto nella direzione del fine dining, ovvero quella indiana. Un paradosso visto che il subcontinente sta vivendo un momento di sviluppo senza precedenti, e basterebbe la clientela del Paese stesso (1,38 miliardi di persone, rispetto agli 1,4 miliardi della Cina) per capire che il futuro del Paese sarà spostato anche oltre i confini.

La storia della cucina indiana

Com’è facile immaginare quella che noi chiamiamo ‘cucina indiana’ è una versione ridotta dell’enorme patrimonio gastronomico del Paese asiatico che non solo vede grandissime differenze da regione a regione, ma anche divisioni di tipo etnico, religioso (i due principali credo della nazione, induista e musulmano, hanno dettami diversi e molto chiari in tal senso) e una stratificazione storica antica più di 5mila anni.

Sappiamo con certezza ad esempio che nel 3000 a.C. le civiltà della Valle dell’Indo erano già allevatori di bestiame e coltivavano sesamo, melanzane, cardamomo, pepe nero, curcuma e senape. Molte ricette ancora in uso sono nate nel periodo Vedico (dal 1500 al 600 a.C.) quando l’India era ancora ricca di foreste, e la normale dieta era a base di frutta e verdura, pertanto sempre di più la popolazione abbracciava il vegetarianesimo, consolidatosi con l’avvento del Buddhismo.

Durante il periodo della dinastia Gupta (il nostro Medioevo) il Paese si aprì ai viaggiatori stranieri, che introdussero prodotti diventati tipici come alcune nuove spezie e soprattutto il . E solo a seguito delle invasioni musulmane che si comincia a consumare maggiormente la carne e nasce quella che chiamiamo cucina “Mughlai” (di forte influenza persiana e turca), ancora oggi associata all’India per il gran utilizzo di zafferano e noci e per la tecnica di cottura del dum (una casseruola sigillata).

L’altra grande invasione del subcontinente, quella inglese del diciottesimo secolo, porta all’invenzione del curry e lo sviluppo di una cucina anglo-indiana, che ha portato alla creazione del Raj: un rito del tardo pomeriggio che prevedeva la preparazione di una cena elaborata, sofisticata, servita con il tè.

    Haveli
    The St. Regis Florence Food Festival Indiano
    Jaisalmer avec shaker
    Rampur Asava ambiance
    Shirvan
    Trèsind Studio
    Trèsind Studio

Gli ingredienti della cucina indiana

La cucina indiana è ricchissima di legumi, tra cui i “masoor” (una varietà di lenticchie rosse), “channa” (ceci del Bengala), “toor” (conosciuto anche come cece giallo), “urad” (cece nero) e “mung” (cece verde). I legumi nella cucina indiana si usano sia interi e sgusciati, sia macinati o passati – per quello che è più comunemente chiamati “dal” – e mescolati alle farine.

Le spezie più comunemente utilizzate nella cucina Indiana sono i peperoncini, i semi di senape nera, il cumino, la curcuma, fieno greco, “assafetida” (una radice conosciuta anche come “radice del diavolo”), lo zenzero, il coriandolo e l’aglio. Molto utilizzati sono anche i mix di spezie, tra cui spicca il “garam masala”: un mix di almeno cinque spezie essiccate (tra cui cardamomo, cannella e aglio), la cui composizione varia però da regione a regione.

Bere in India

Notizia ancora poco nota in occidente, ma l’India è uno dei Paesi più interessanti al mondo per gli amanti del whisky. Infatti il Paese è tra i maggiori consumatori del mondo di questo distillato che qui si è affermato durante la dominazione britannica, e anche se molte referenze chiamate Indian Whisky, non lo sono realmente (si tratta di un mix di alcol neutro, alcol di melassa e una piccola percentuale di malto d’orzo, nonché l’aggiunta di aromi) esistono delle nobilissime eccezioni molto interessanti.

Durante il British Raj, intorno al 1820 aprì il primo birrificio, per il quale si avviò l’importazione di malto d’orzo, e poco dopo fu trasformato anche in distilleria, diventando la prima dell’India. L’utilizzo dei cereali per la distillazione, non era all’epoca visto di buon grado, vista la carenza di cibo che il Paese si è spesso trovato ad affrontare.

Ad oggi il mercato è fiorente, e propone anche prodotti di alta qualità come Amrut Distillery fondata nel 1948, e che dal 2004 commercializza Amrut Indian Single Malt Whisky creato con orzo autoctono e Rampur, nata in tempi molto recenti.

Entrambe le distillerie sopracitate inoltre hanno messo sul mercato anche un loro Gin. La Jhon Distilleries invece, dopo aver prodotto negli anni ’90 distillati per whisky fake, dal 2012 ha iniziato a produrre il suo single malt, Molto interessante in tal senso sono i “single cask indie” selezionati da Cadenhead’s e disponibili anche in Europa.

Un’ultima curiosità sull’India: l’invecchiamento avviene a circa 1000 m di altitudine. Pensiamo che il clima sub tropicale dell’India dia risultati molto diversi dal clima scozzese. Spesso si dice che 1 anno in India, equivalga a 3 anni in Scozia.

La cucina indiana del futuro

Con queste premesse è chiaro che il successo della cucina indiana è destinato ad andare ben oltre i confini dell’Asia, e ormai le prove ne sono evidenti: nella recente classifica 50Best MENA (Middle East North Africa) infatti, il secondo miglior ristorante di tutto il medio oriente è risultato essere Trèsind Studio di Dubai. Non una novità, infatti il ristorante dalla sua apertura nel 2018 ha preso tutti i riconoscimenti possibili e immaginabili, compresa la stella Michelin.

Dietro a questo successo troviamo lo chef Himanshu Saini, che dopo aver imparando il suo mestiere a Nuova Delhi si è traferito negli Emirati dove è diventato l’alfiere della moderna gastronomia indiana. Dopo aver aperto Trèsind nel 2014 ecco la consacrazione con il concettuale Trèsind Studio quattro anni dopo, entrambi acclamati dalla critica.

Il suo menù intitolato “Tasting India”, un degustazione suddiviso in quattro sezioni di piatti che esplorano il nord, il sud, l’est e l’ovest del paese. Navigando nel lato occidentale ti troverai a mangiare un chaat di fiori iridescenti con purea di zucca e yogurt, mentre un viaggio verso sud ti porterà a un piatto di granchio arrosto con burro chiarificato con cannella bruciata e una foglia di curry croccante.

Nel successo di questo ristorante straordinario c’è anche un po’ di Italia. Infatti tutta l’offerta di pairing e di bar è seguita dal bartender e consulente di fama internazionale Dom Carella (co-proprietario anche del locale Carico, a Milano) che ha studiato una serie di drink in bottiglia perfetti a livello gustativo per accompagnare i piatti, che vengono serviti in calice come vino, senza l’imposizione eurocentrica del figlio dell’uva, sostituita di volta in volta da thé, kombucha e succhi in accompagnamento a liquori e distillati.

Un altro interessante indirizzo da provare in tal senso è senza dubbio Shirvan. Il ristorante di Marrakesh dello chef stellato Michelin Akrame Benallal. Il ristorante è incastonato all’interno di Mandarin Oriental, il primo del  gruppo in Africa.

In questo moderno ed elegante resort immerso nel cuore di 20 ettari di uliveti e giardini con 100.000 rose profumate, lo spazio ristorativo di design con richiami contemporanei all’artigianato marocchino come ad esempio le librerie in legno arredate con oggetti trovato nei souk vicini o le pareti sono calorosamente adornate con tradizionali H’ssira, pannelli di paglia che riecheggiano la delicatezza dei motivi berberi.

Il nome Shirvan deriva da un’antica provincia dell’Azerbaigian che ha ispirato Akrame per il suo concetto, ovvero la storia della Via della Seta, che si snoda attraverso i vari paesi, lo chef ha immaginato una cucina di condivisione, delicatamente condito con spezie, in uno spazio che è completamente orientato al viaggio.

Ed ecco quindi nascere una cucina fusion di stile indiano-marocchino, in cui si incontrano spezie e ingredienti, tecniche di cottura e tradizioni secolari in piatti come il cavolfiore arrostito tandoori (con salsa tahin, fiori d’arancio, limone nero iraniano, mandorle) oppure l’orata masala (filetti di orata avvolti in una foglia di banano, salsa al tamarindo) o finanche il tandir di pollo (pollo marinato cotto nel forno tandoor, salsa allo yogurt alle erbe). Se il concetto di cucina fusion è ben conosciuto ed apprezzato per le contaminazioni tra Asia ed Europa, fidatevi che i punti di contatto tra India e Nord Africa non sono da meno.

La cucina indiana in Italia

Anche in Italia ci sono chef indiani contemporanei che si sono fatti conoscere e cominciano ad esserci manifestazioni di livello per promuovere questo tipo d’attività. Si è appena concluso al The St. Regis Florence il Food Festival Indiano che ha visto per un’intera settimana, gli eleganti saloni del Winter Garden Restaurant ospitare eventi e menù dedicati in collaborazione con la celebrity chef di fama internazionale Ritu Dalmia.

Il rapporto privilegiato tra la chef Ritu Dalmia e l’Italia è cosa nota – la chef di Calcutta è infatti proprietaria di due ristoranti a Milano, “Cittamani” e “Spica”, e da vent’anni insegna la buona cucina italiana ai suoi connazionali indiani nei tre ristoranti di Delhi: “Diva”, “Latitude” e il ristorante “Diva” all’interno dell’Italian Institute of Culture di Nuova Delhi.

Per chi ha avuto la fortuna di approfittarne stato possibile provare i piatti autentici e casalinghi ma al contempo raffinati della brigata indiana: un tradizionale menu Thali, ossia un piatto unico con diverse pietanze per assaggiare sapori differenti, che cambia quotidianamente, per il pranzo, e un menù alla carta di prelibatezze, vegetariane e non, per la cena.

Per chi non avesse avuto modo di approfittarne può andare a Milano per provare la cucina della chef, oppure restando nel capoluogo toscano, provare la proposta del più antico ristorante di cucina indiana in città, quella di Jyoti e Rubel – marito e moglie – nel ristorante Haveli. Il primo, chef esperto e membro dell’Associazione Cuochi Fiorentini, mentre la moglie coordina la sala e gestisce l’organizzazione.

La proposta culinaria di Haveli (che significa letteralmente dimora di alto rango) è all’insegna della tradizione della regione del Punjab, di cui sono originari i due proprietari, ma non manca alcune interpretazioni anche dei grandi classici. Appena entrati, dietro il bancone, spicca una collezione di grandi whisky tra cui molti provenienti proprio dal Subcontinente. Insomma, il futuro della gastronomia passa dall’India, e a quanto pare il futuro è già qui.

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