Joe Biden e Ursula Von der Leyen alla Casa Bianca, il compito facile all’inizio: esprimere l’appoggio solido e congiunto all’Ucraina. Poi la conversazione si sposta su un tema più scivoloso: l’Europa è preoccupata per gli enormi sussidi del governo americano alle proprie imprese, soprattutto nei settori verdi del futuro, e teme che quei sussidi possano discriminare e danneggiare l’industria europea. Questa è la sintesi dell’incontro di metà marzo a Washington tra il presidente Usa e la presidente della Commissione Europea. La scorsa estate i leader europei hanno cominciato a udire un suono di sottofondo che cresceva minaccioso. Con una metafora balneare alcuni commentatori lo hanno paragonato al boato della risacca delle onde oceaniche. Quel suono era l’Inflation reduction act (Ira), una legge approvata dal Congresso americano ad agosto per accelerare la transizione verde negli Stati Uniti.
Si temeva che la nascente industria europea delle tecnologie pulite sarebbe stata assorbita, o ‘risucchiata’, dall’altra parte dell’Atlantico con la promessa di aiuti (crediti d’imposta, agevolazioni, sussidi) che ammontano a circa 400 miliardi di dollari in dieci anni. Per evitare che ciò accada, sostengano molti politici europei, il nostro blocco economico dovrebbe come minimo eguagliare le somme dello stimolo americano. L’obiettivo resta quello di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, creando una nuova industria verde che competa con Cina e Stati Uniti. Con quel rumore di risacca nelle orecchie, la Commissione europea ha presentato a febbraio una prima risposta all’Ira; dentro, tra le altre cose, alcuni strumenti pensati per sbloccare soldi pubblici più facilmente, in sostanza aiuti di stato, fermo restando la necessità di non frammentare troppo il mercato unico europeo. Ma non è solo questione di quanto denaro viene messo in circolo.
Un aiuto alla transizione
La bellezza dell’Ira, agli occhi degli europei, sta anche nella sua semplicità d’utilizzo. Le regole sono le stesse in tutta l’America: ottenere crediti d’imposta, sovvenzioni o prestiti agevolati è piuttosto facile – basta che l’azienda soddisfi i criteri richiesti, come investire in un determinato settore. Lo scenario europeo è molto più frastagliato, perché le tasse sono prerogativa dei singoli stati, il che esclude incentivi fiscali omogenei a livello continentale. Ciò risulta, spiegano gli esperti, in una cacofonia di schemi nazionali. La burocrazia dei sussidi è un percorso a ostacoli.
Spesso le piccole startup innovative, che hanno bisogno di fondi per ampliare i loro progetti, devono assumere costose società di consulenza che aiutino nella scrittura delle proposte di sovvenzione. E una volta depositata la domanda, scrive ad esempio l’Economist, possono volerci mesi o anni prima che venga presa una decisione. Werner Hoyer, presidente della Bei (la Banca europea per gli investimenti), ha spiegato che per competere l’Ue non ha bisogno di “sovvenzioni su larga scala”; il problema è l’impaccio costituito da procedure amministrative ingombranti. “Parlo per esperienza”, ha detto Hoyer, “I nostri banchieri vorrebbero finanziare progetti industriali verdi. Ma i nostri clienti aspettano i permessi, impantanati nella burocrazia”. Dunque una delle missioni dell’Ue dovrà essere sbrogliare queste lungaggini, in modo che i fondi possano scorrere senza incagliarsi. Ma una volta resa fluida la strada, resta la questione della manodopera: ci sono abbastanza persone per implementare questi progetti?
Mancano gli elettricisti
Qui le traiettorie di Europa e Stati Uniti, invece di divergere, potrebbero incrociarsi. In entrambi i mercati esiste un problema di manodopera. Caricabatterie, pompe di calore e altri dispositivi verdi. L’America sta provando a “elettrificarsi”, titola il Wall Street Journal, e tuttavia la strada non è spianata perché anche lì “mancano gli elettricisti”. Oggi ce ne sono 700mila, aumenteranno del 7% in dieci anni, ma la crescita – dicono alcuni analisti del settore – dovrebbe essere molto più veloce affinché gli Stati Uniti possano raggiungere i loro obiettivi climatici.
La corsa dell’energia solare in Europa è altrettanto bloccata. Secondo Solar Power Europe, un ente commerciale, l’Unione Europea ha molte più celle fotovoltaiche di quante ne possa installare, perché c’è penuria di “elettricisti qualificati”. Solar Power Europe inoltre dice che il numero di lavoratori nel settore dovrà aumentare da 500mila nel 2021 a più di un milione entro il 2030 – questo se si vuole ottenere, sempre entro il 2030, il 45% dell’energia da fonti rinnovabili, cifra che in ogni caso deve essere ancora concordata dagli stati membri dell’Ue. L’industria solare spagnola non è messa meglio: progetti fermi perché mancano lavoratori nonostante i sussidi del governo. In Germania il 60% degli appaltatori elettrici ha posti vacanti ed è stata accertata una carenza di oltre 200mila lavoratori qualificati, si legge in uno studio del Center for Global Development, un think tank con sede a Washington e Londra. La Francia avrà bisogno di almeno 100mila lavoratori in più entro il 2030 per raggiungere gli obiettivi di ristrutturazione degli edifici, mentre le aziende svedesi di impianti solari dovranno assumere altre 30mila persone nei prossimi cinque anni.
Una carenza di competenze
Un sondaggio recente della Bei conferma che la transizione verde in Europa è frenata dalla mancanza di lavoratori qualificati. La ricerca è stata condotta su un campione di 12.500 società, proprio quando l’Unione europea si prepara ad aumentare il sostegno alle tecnologie verdi per competere con gli incentivi statunitensi. Dall’indagine della Bei viene fuori che più di quattro quinti delle aziende e il 60% delle autorità locali intervistate affermano che una carenza di competenze, in particolare nei settori dell’ingegneria e del digitale, sta impedendo di realizzare quei progetti di transizione ecologica. “Gli investimenti per limitare il cambiamento climatico stanno aumentando, ma sono ancora ben al di sotto di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo europeo di zero emissioni nette entro il 2050”, conclude il rapporto.
E guardando oltre i confini occidentali si scopre che la carenza di braccia e competenze non riguarda solo Europa e Stati Uniti. Le lacune sono globali, dunque importare lavoratori, affidarsi cioè all’immigrazione, può aiutare solo fino a un certo punto. Ad esempio, l’Agenzia internazionale per l’energia stima che l’occupazione nei settori verdi dovrà aumentare in tutto il mondo da 33 a 70 milioni tra il 2021 e il 2030, se si vogliono raggiungere gli obiettivi climatici. A tal proposito, la Commissione europea ha avanzato l’idea delle cosiddette net zero industry academy. In sostanza si tratterebbe di agenzie con cui riqualificare la manodopera verso settori green, oltre a meccanismi per agevolare l’arrivo di lavoratori fuori dall’Unione europea con esperienza in settori prioritari. Quindi la strategia dell’Ue potrebbe essere quella di percorre due canali: formazione da un parte, immigrazione dall’altra.
Il caso dell’India
Ecco la sorpresa. Se è vero che il bacino di lavoratori langue un po’ ovunque, ci sono però alcuni paesi dove potrebbe esserci dell’offerta in eccesso. Un caso è l’India, dove il governo negli ultimi sei anni ha addestrato circa 80mila persone con le competenze necessarie per installare pannelli solari, collegarli alle reti e mantenere le batterie. Sono tecnici usciti da scuole professionali che oggi dovrebbero gestire quei progetti di energia solare che servono all’India per raggiungere gli obiettivi climatici (500 gigawatt di energia rinnovabile entro il 2030). Il problema è che tanti di questi giovani al momento languono disoccupati, come racconta un’inchiesta di Reuters. Meno di un terzo dei partecipanti al programma governativo ha trovato lavoro nell’industria dell’energia solare.
“I tecnici solari hanno il potenziale per diventare indispensabili, proprio come i meccanici automobilistici”, sostiene Chetan Singh Solanki, fondatore della Energy Swaraj Foundation, una no profit indiana che lavora per ridurre le emissioni del riscaldamento climatico. “Ma la politica ha creato dei colli di bottiglia, rallentando la crescita del settore e riducendo le opportunità di lavoro per migliaia di persone formate su quelle materie”. Ecco perché queste riserve di manodopera potrebbero tornare utili da altre parti. A tal proposito ricordiamo la denuncia di Solar Power Europe: da noi, in Europa, mancano “elettricisti qualificati” e, come dicevamo, ci sono molte più celle fotovoltaiche di quante se ne possano installare. Dunque l’Europa, secondo diversi esperti, dovrebbe guardarsi attorno cercando paesi con cui instaurare partenariati di addestramento e migrazione sulle competenze verdi.
La questione auto
Ma c’è anche chi mette in guardia dai rischi di una transizione ecologica che in alcuni settori potrebbe richiedere compromessi molto dolorosi – forse troppo. Una delle misure più controverse – e ambiziose – dell’Ue è il divieto di vendita di auto nuove alimentate da motori a combustione interna (benzina e diesel) entro il 2035. Il bando è stato deciso l’anno scorso dagli stati membri ed è stato approvato recentemente dal parlamento europeo, come parte fondamentale del piano di raggiungere emissioni nette zero nel 2050. Al momento di ratificare l’accordo però il governo di coalizione tedesco si è tirato indietro – con gran sollievo di altri paesi, tra cui l’Italia, che temono di subire danni da una transizione troppo rapida nel settore dell’auto. I trasporti generano circa un quarto del totale dei gas serra nel mondo, e i veicoli stradali oltre il 70% di questa quota. Dunque pulire le emissioni automobilistiche è decisivo per il clima.
Tuttavia chi critica il divieto europeo fa notare che il nostro continente produce solo l’8% dei gas serra globali. E la scomparsa più o meno lenta del motore a combustione significa la fine del modello di business di una parte notevole dell’indotto, che in Italia è molto presente, come i produttori di cambi, di sistemi di raffreddamento e pompe di iniezione. A rischio, secondo l’Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica), ci sarebbero in Italia più di 65mila posti di lavoro già nel periodo 2025-2030. In Germania, secondo un’analisi di Boston Consulting Group e del think-tank tedesco Agora Verkehrswende, quasi la metà dei lavoratori automobilistici avrà bisogno di riqualificarsi. In realtà lo studio tedesco è per certi aspetti cautamente ottimista, affermando che se la transizione verrà gestita bene, almeno entro il 2030, non ci sarà una perdita netta di posti di lavoro (c’è da dire che altre ricerche sono meno fiduciose), nel senso che alcuni impieghi verranno creati, altri distrutti, man mano che la produzione di componenti lascerà il posto a batterie elettriche e programmazione informatica.
Il partito della benzina sintetica
L’altro argomento contro il divieto dei motori diesel e benzina è che imponendo l’elettrico viene meno la neutralità tecnologica: il principio secondo cui conta l’obiettivo (abbassare le emissioni), non il modo in cui lo raggiungi. Come insegnava Deng Xiaoping, padre dell’apertura cinese al mercato: “Non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che acchiappi il topo”. Anche per questo la Germania insiste affinché la Commissione europea includa un’esenzione per le auto che usano i cosiddetti e-fuel, carburanti sintetici a base di idrogeno e anidride carbonica. Potrebbero alimentare i classici motori a combustione, il che potrebbe significare un’ancora di salvezza per i produttori tradizionali e tutta la filiera dell’indotto, con decine di migliaia di lavoratori in Italia. Case sportive come Ferrari e Porsche vogliono fortemente la benzina sintetica. Per altri analisti gli e-fuel non sono la panacea. Costosi e ancora difficili da produrre su larga scala, sarebbero – a detta dei detrattori – una specie di ‘cavallo di Troia’ per ritardare le transizione.
Secondo alcune stime, infatti, la disponibilità di e-fuel in Europa sarà così limitata che nel 2035 potrà alimentare non più del 2% dei veicoli in circolazione. È vero però che sono indietro anche gli investimenti nelle colonnine per la ricarica delle auto elettriche, infrastrutture fondamentali per abbandonare i motori termici. L’Italia è più indietro di altri paesi europei: di circa 30mila punti di ricarica presenti sul nostro territorio, appena mille sono ad alta potenza, cioè in grado di rifornire un’auto in 15-30 minuti. Senza colonnine, niente macchine elettriche. Ancora per un po’, invece di importare elettricisti dall’India ci terremo i nostri meccanici.
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