“Il nuovo ordine dei secoli”. Questo motto, in latino, è presente dal 1935 sulle banconote da 1 dollaro americano. Non poteva essere più profetico. Neanche dieci anni dopo, nel 1944, a Bretton Woods, con l’imminente vittoria americana nella Seconda Guerra Mondiale, nasceva un nuovo ordine economico e monetario incentrato sul dollaro. Venne stabilito, infatti, che tutte le valute mondiali sarebbero state convertibili in dollari statunitensi secondo un tasso di cambio fisso. Allo stesso tempo la moneta americana era a sua volta convertibile e ancorata all’oro. In pratica fu imposto il predominio del dollaro americano, garantito dalla potenza militare Usa, su tutte le altre valute e il suo utilizzo come valuta di riserva delle banche centrali, per le compravendite di petrolio e di materie prime.
Dal consesso di Bretton Woods sono passati quasi 80 anni, il dollaro non è più convertibile in oro dal 1971, ma è tuttora la valuta dominante a livello globale. La maggior parte delle riserve globali nel 2021, secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), è in dollari e quasi i due terzi delle transazioni a livello mondiale vengono effettuate in questa valuta. All’apparenza, quindi, non è cambiato nulla. Sempre il Fmi evidenzia, però, come negli ultimi 20 anni la presenza di dollari Usa nelle riserve delle banche centrali sia scesa dal 71% all’attuale 59%. La guerra in Ucraina, poi, potrebbe aver segnato un punto di svolta, accelerando, come affermato dallo strategist di Credit Suisse Zoltan Pozsar, il processo di ‘de-dollarizzazione’ già in atto.
Una moneta forte per puntellare il potere
Il congelamento di oltre 300 miliardi di riserve in dollari della Banca Centrale Russa, per ritorsione contro l’invasione dell’Ucraina, ha acceso un campanello d’allarme in molte cancellerie di altri paesi emergenti. L’uso strumentale del dollaro da parte americana ha incentivato il mondo non occidentale all’utilizzo di altre valute, come sottolineato anche dal ministro delle Finanze indonesiano, che ha definito la guerra in Ucraina una “lezione preziosa”. Molti paesi, per paura del blocco improvviso di parte o di tutte le proprie riserve in dollari, hanno iniziato a investire i surplus in materie prime o oro e a diversificare le loro riserve anche in altre valute.
Tra queste anche quella cinese, il renminbi o yuan, che nel 2016 è entrata nel paniere di valute che compongono i diritti speciali di prelievo (dsp) e da allora può essere usata come valuta di riserva. Pechino vuole rafforzare il ruolo internazionale del renminbi, che finora pesa però solo il 3% nelle riserve delle banche centrali (in crescita dall’1% del 2016). Sa che, nella storia, tutte le potenze dominanti hanno fondato la loro egemonia non solo sulla forza militare, ma anche su quella economico-monetaria. La forza militare puntella il dominio economico e valutario di una nazione e, allo stesso tempo, un’economia e una moneta forti sostengono le spese militari. Lo dimostrano i casi della sterlina, moneta più utilizzata fino alla Seconda guerra mondiale e fondamento dell’impero britannico, e il ruolo del dollaro dal 1944 a oggi.
L’accordo per il petrolio saudita
Xi, per trasformare il suo paese nella prima potenza globale, avrà bisogno quindi di una valuta forte, stabile e usata a livello internazionale. Per questo sta siglando accordi con stati non appartenenti al blocco Occidentale/Nato. Fondamentale la visita di Xi a dicembre 2022 in Arabia Saudita, dove, oltre a firmare importanti accordi commerciali, ha ottenuto di poter pagare il petrolio saudita importato con la valuta cinese. L’accordo è di portata storica perché mette a rischio l’utilizzo esclusivo del dollaro per le compravendite di petrolio, una delle basi fondanti del dominio della valuta statunitense.
La Cina, infatti, è il primo consumatore al mondo di petrolio e oggi ne importa ogni giorno circa 1,76 milioni di barili dall’Arabia Saudita (un quarto della produzione saudita). Per di più, un’analisi di Credit Suisse ha stimato che circa il 40% delle riserve di petrolio al mondo appartengano a Russia, Iran e Venezuela, paesi ostili agli Usa, ma da cui la Cina importa sempre più petrolio, pagato in renminbi. Si potrebbe passare, quindi, dal petrodollaro al petroyuan, con effetti dirompenti nei mercati valutari.
Liberare il mondo dal dollaro
Xi, poi, ha potenziato le relazioni con Brasile e Argentina, paesi ricchi di materie prime e terre rare, come il litio. In Brasile, per la prima volta, la banca Bbm, controllata dalla Chinese Bank of Communications, potrà utilizzare il sistema di pagamenti Cips cinese in alternativa allo Swift. Inoltre, i due paesi hanno creato di comune accordo una camera di compensazione per facilitare l’interscambio commerciale anche senza l’uso della valuta statunitense. La Banca centrale cinese e quella argentina hanno deciso, invece, di permettere allo stato sudamericano il pagamento delle importazioni direttamente in renminbi. La Cina, capofila del gruppo di paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), sta spingendo anche per la creazione di una nuova valuta da usare nell’interscambio tra le loro economie, che valgono il 24% del Pil globale.
L’idea di Pechino è quella di liberare il mondo dal giogo del dollaro, visto da molti paesi emergenti come una sorta di colonialismo monetario americano. I loro debiti esteri sono spesso espressi in dollari e un brusco rafforzamento, come quello avvenuto nel 2022, può rendere insostenibili gli oneri finanziari di questi paesi, portandoli al default. Sembra, comunque, che il vero obiettivo di Xi, con le sue mosse di politica estera, sia non tanto creare una nuova valuta, ma sostituire al dollaro una moneta già esistente: la sua. Renminbi significa ‘valuta del popolo’. Pechino vorrebbe che diventasse la moneta non solo del popolo cinese, ma del mondo intero.
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