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Amnesty International e i suoi programmi per la tutela delle cittadine afgane

Articolo di Riccardo Noury tratto dal numero di luglio 2023 di Forbes Italia. Abbonati!

“Quando sono tornati, s’è spenta la luce”. In questa frase, pronunciata in una precaria telefonata ad Amnesty International il 15 agosto 2021, un’attivista per i diritti umani ha descritto nel modo più efficace possibile la situazione a Kabul, capitale dell’Afghanistan, appena riconquistata dai talebani. Nei due anni trascorsi da allora, i talebani hanno dichiarato guerra alle donne. “Ci è rimasto solo il diritto di respirare”, ha commentato un’altra attivista afgana. 

Dall’agosto 2021, le donne sono state escluse dai ruoli politici e dalla maggior parte degli impieghi nel settore pubblico. Attraverso una serie di annunci e provvedimenti, le donne e le bambine sono state escluse dall’istruzione successiva alla scuola primaria, impedendo loro di proseguire gli studi all’università, subendo così un’ulteriore limitazione alle opportunità professionali.

Lo smantellamento dei programmi istituzionali di sostegno alle sopravvissute alla violenza di genere ha avuto conseguenze enormi. L’introduzione del reato di abbandono della casa familiare, combinata con la chiusura dei rifugi, ha portato alla criminalizzazione delle donne in fuga dalla violenza domestica. Dal novembre 2022 c’è stata una paurosa recrudescenza nell’applicazione delle punizioni corporali. Se nei 16 mesi precedenti l’Unama (la Missione di assistenza delle Nazioni unite in Afghanistan) aveva registrato 18 casi di punizioni corporali, nei sei mesi successivi sono stati frustati in pubblico 274 uomini, due minorenni e 58 donne, molte delle quali proprio per abbandono della casa familiare. Ribadiamolo ancora: le donne che fuggono da mariti violenti vengono frustate.

Ancora: i decreti del 24 dicembre 2022 e del 4 aprile 2023 sul divieto per le afgane di lavorare per le organizzazioni non governative e le Nazioni unite hanno fornito ulteriori prove della discriminazione di genere. L’obbligo per le donne di essere accompagnate da un mahram (un guardiano) nei viaggi a lunga distanza, il decreto che costringe le donne a stare a casa e i rigidi codici di abbigliamento imposti dai talebani violano i diritti delle donne alla libertà di movimento e di scegliere come vestirsi in pubblico.

Così, mentre Amnesty International sollecita la Corte penale internazionale a inserire nella sua indagine sull’Afghanistan il crimine di guerra di persecuzione di genere, la guerra dei talebani contro le donne finisce per essere dimenticata. È come se, dopo le evacuazioni della fine di agosto del 2021, la comunità internazionale avesse ritenuto concluso il suo dovere. Partito l’ultimo aereo da Kabul, le donne sono rimaste sole. Le liste di Amnesty International si sono riempite degli stessi nomi che erano in quelle dei talebani, ma per motivi opposti: proteggerle nel primo caso, eliminarle nel secondo.

Se c’è una differenza tra l’Afghanistan dominato dai talebani dal 1996 al 2001 e quello dopo il loro ritiro nel 2021, questa non riguarda chi è al potere, ma chi cerca di non sottomettervisi. Nei 20 anni di mezzo, tra mille difficoltà e una violenza spaventosa, le donne hanno conquistato spazi di libertà e autonomia. Sono entrate nell’amministrazione statale, nelle forze di polizia e nell’esercito, hanno diretto istituti penitenziari, hanno preso la guida delle arti, dell’impresa, del giornalismo. Questo da un lato le ha rese nemiche dei talebani, dall’altro le ha rese consapevoli dell’importanza dello stare insieme, del fare rete, dell’elaborare strategie di resistenza sotterranea. Ciò non significa necessariamente prendere le armi, ma, ad esempio, portare avanti l’istruzione delle bambine attraverso canali non ufficiali.

Siamo lontani dalla prospettiva orientalista che si costruisce attraverso una narrazione di sottomissione, di inerzia, di sconfitta. Le donne afgane lottano con una modalità che fa parte, a pieno titolo, dell’attivismo globale per i diritti umani. Come, del resto, le loro sorelle in Iran, che dallo scorso settembre guidano una fase che, comunque andrà a finire la rivolta in corso, resterà un momento cruciale della storia contemporanea del paese.

La scintilla è stato un gesto di ‘attivismo involontario’ di una comune cittadina, Mahsa Amini, torturata a morte per aver contravvenuto ai rigidi codici di abbigliamento lasciando una ciocca di capelli fuori dal velo. Milioni di donne si sono immedesimate in lei. La lotta per i diritti umani in Iran è portata avanti, come a suo modo quella in Afghanistan, da una prospettiva femminista: il sistema di potere non è riconosciuto più come interlocutore, non è riformabile. Nelle menti delle donne iraniane e afgane, quel sistema semplicemente non esiste più. Esistono, è chiaro, la frusta e la corda al collo, perché con l’una e con l’altra quel sistema terrorizza e si aggrappa al potere. 

Sta a noi, che siamo in una posizione confortevole, decidere se voltare le spalle a questi movimenti resistenti e resilienti, se pensare che un like su una piattaforma social possa essere sufficiente a manifestare simpatia o se fare qualcosa di più. Mentre la comunità internazionale, dopo quasi due anni, sta ancora discutendo se riconoscere i talebani come governo dell’Afghanistan e, per quanto riguarda l’Iran, continua ad applicare la ‘retorica sui diritti umani’ (ossia, parlarne tanto per non cambiare nulla), le organizzazioni non governative sostengono concretamente, sul campo come da fuori, l’attivismo delle donne. Lo fanno finanziando progetti, facendo rumore nella consapevolezza che il silenzio è la colonna sonora dei sistemi autoritari, chiedendo giustizia sapendo bene che, per assicurare un futuro di diritti, occorrerà che chi è al potere a Kabul e a Teheran cambi sedia: dallo scranno del potere a un’aula di tribunale.

Amnesty International, grazie a team di ricerca altamente specializzati, lavora in prima linea nelle situazioni di crisi e di emergenza, quando la vita di migliaia di persone è messa in pericolo. Le nostre ricerche ci permettono di documentare e denunciare i crimini contro l’umanità e chiedere l’intervento della comunità internazionale. Tutto questo è possibile grazie al supporto dei nostri alleati speciali, persone che scelgono di lottare insieme a noi sostenendo le nostre ricerche. Per maggiori informazioni: [email protected]

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