Articolo tratto dal numero di ottobre 2023 di Forbes Italia. Abbonati!
A guardare i soffitti, le pareti, gli arredi, pensi a tutto meno che alla tecnologia, all’innovazione. Ti viene solo da restare a bocca aperta con gli occhi all’insù. La sede di rappresentanza di Almaviva è questa?, viene da chiedere. D’altra parte Palazzo Colonna, in piazza Santi Apostoli a Roma, è un inno alla bellezza, all’impronta elegante del Rinascimento.
E allora, cos’è stato il Rinascimento se non l’esplosione del genio italiano? E cos’è la tecnologia made in Italy se non una seconda esplosione del genio italiano, 500 anni dopo? Già, l’Italia non è solo il paese del bello, del cibo, del vino, delle opere d’arte. È anche il paese della tecnologia. E infatti la prima domanda a Marco Tripi, ad di Almaviva e figlio del presidente e fondatore Alberto, è proprio questa: Almaviva è una società di It, ma It sta per information technology o italian technology? “Tutti e due, direi”, risponde. “Siamo con successo nel mercato dell’It, ovvero dell’information technology, sempre più centrale in Italia e nel mondo, e siamo soprattutto una società italiana dell’It. Questo è un fattore che ci rende unici. Quindi sì, possiamo anche dire che per noi It sta per italian technology”.
Tripi è un imprenditore e un manager di grandi intuizioni. Sa muoversi sui mercati mondiali con grande attenzione e colpisce sempre il bersaglio laddove ci sono possibilità di crescita. È legatissimo alla sua azienda e alla sua famiglia. Poche distrazioni (palestra alla sera) e tanto lavoro. Per dimostrarlo basta la parola, come si diceva una volta. “Almaviva è un gruppo imprenditoriale italiano a partire dal nome, che descrive la famiglia, prendendo le due lettere iniziali di Alberto, Marco, Vittoria e Valeria, ovvero mio padre, io, mia madre e mia sorella”, precisa Tripi. “Quest’anno festeggiamo i 40 anni dell’impresa. In questo mercato sentiamo l’unicità non solo dell’essere italiani, ma anche dell’osmosi perfetta tra quanto creato da mio padre e quanto portato avanti da me. Nel 1983, quando mio padre, manager dell’Ibm a Parigi, decise di fare l’imprenditore, io avevo solo 13 anni, ma lui già mi rendeva partecipe, raccontandomi progetto e obiettivi, ma anche difficoltà e complessità delle scelte. Ho assistito a tutto il percorso, prima da osservatore e poi entrando nel gruppo oltre 20 anni fa, per affiancarlo e poi guidare l’azienda”.
Già, ma cosa fa Almaviva?
Almaviva si occupa di innovazione digitale. Accompagna la crescita del sistema paese e, allo stesso tempo, di organizzazioni e imprese, pubbliche e private, che vogliono diventare sempre più competitive nell’epoca del digitale, innovando il proprio modello di business, la propria organizzazione, la cultura aziendale e l’Ict. A partire da solide competenze made in Italy, Almaviva ha dato vita a un network globale che conta circa 45mila persone e oltre un miliardo di euro di fatturato nel 2022. Opera attraverso 76 sedi in Italia e all’estero, con un’importante presenza in Brasile, oltre che in Usa, Arabia Saudita, Colombia, Egitto, Finlandia, Repubblica Dominicana e Tunisia. E poi a Bruxelles, centro nevralgico dell’Unione europea.
Va bene. Questo è il quadretto. Ma qual è esattamente il suo lavoro?
Cerco di immaginare e di dar corpo alle sfide di oggi e di domani. E renderle possibili grazie anche a un’attenta scelta delle persone che mi accompagnano in questo percorso. Identificare la direzione giusta è fondamentale. Il mio approccio è da imprenditore, non da manager: c’è molta differenza. Negli ultimi anni la gran parte delle aziende italiane del settore è stata venduta, tendenzialmente a fondi di investimento. Le società di tecnologia e telecomunicazioni italiane controllate da imprenditori sono pochissime. Da qui la nostra unicità. Abbiamo la percentuale più bassa di attività imprenditoriali nel settore tra tutti i paesi occidentali più sviluppati.
E qual è la differenza tra gestione imprenditoriale o manageriale di un’azienda?
Si rileva dall’intensità, dalla perseveranza che un imprenditore mette nell’affrontare le sfide, nella volontà di creare una realtà solida, duratura e che porti valore alle persone e al paese. Vendere un’azienda non è un male, ma cambia la prospettiva. Ogni settimana, per dire, si affaccia un fondo a farci un’offerta. Ma vince la voglia di creare qualcosa di significativo, di crescere, di essere la prima società It in Italia e poi la prima in Europa, e questo è un approccio diverso da quello di chi mira a massimizzare la vendita. L’aver potuto accompagnare la nascita, la crescita e l’ultimo rapido sviluppo del gruppo mi porta a puntare più alla soddisfazione di farlo crescere ancora, anche all’estero, che a quella di contare i soldi.
L’italianità è per voi un elemento fondante e un valore identitario, al punto di avere 76 sedi nel mondo e tecnologia tutta made in Italy.
È una formula che funziona: negli ultimi cinque anni abbiamo più che triplicato i nostri margini. Stiamo vincendo gare in tutto il mondo. Non è così scontato, soprattutto quando le gare sono negli Stati Uniti, ma anche in Finlandia, nel Regno Unito, in Tanzania, in Arabia Saudita.
Insomma, esportate tecnologia.
Non solo, oltre a esportare tecnologia, siamo attrattivi sul mercato del lavoro e importiamo talenti. Tra i nostri dipendenti in Italia si contano 25 nazionalità, recentemente abbiamo assunto 15 ingegneri indiani che hanno studiato in Italia.
Caso atipico il suo: l’imprenditore ad lo si trova normalmente nelle piccole e medie aziende, non in quelle così grandi. Lei quanto si fida dei suoi manager?
Mi fido totalmente. Innanzitutto, perché li ho scelti io negli ultimi 20 anni: primi, secondi e terzi livelli, sulla base di caratteristiche che rispondono a una cultura aziendale a me consona. Detto così sembra banale, ma al primo posto ci sono onestà, etica e, ovviamente, competenze. Non scelgo persone che non fanno errori, ma che, se li fanno, li fanno in buona fede, con la voglia di creare e di rischiare. Creare senza rischiare è impossibile. Inoltre, mi fido pienamente dei miei manager perché non sono miei ‘concorrenti’. Un manager capo azienda spesso sceglie persone più di fiducia che di qualità, perché teme possano minarne il ruolo. Un imprenditore, al contrario, cerca necessariamente manager più bravi di lui, perché creano valore in un percorso condiviso.
Chi sono i vostri concorrenti?
Ci confrontiamo con i colossi del settore It. Tutti hanno più risorse e un brand più noto, eppure noi cresciamo più degli altri. Perché? Perché abbiamo velocità di esecuzione, possiamo fare scelte molto rapide, ragionare su tempi medio-lunghi e su una struttura manageriale che condivide questo percorso. Cresciamo più degli altri non solo come ricavi, ma soprattutto come margini. Registriamo la marginalità più alta del settore, nel 2022 si è attestata sul 16%, con un ebitda di oltre 171 milioni di euro. E nel primo semestre 2023 continuiamo a crescere dell’11,4% anno su anno, con un ebitda oltre i 93 milioni euro e una marginalità del 16,9%.
Come avete fatto a superare il miliardo di fatturato?
Identificando con lungimiranza i business da perseguire e i paesi e i mercati su cui investire. Siamo passati da essere system integrator, cioè chi integra tecnologie di altri, a società che ha proprie tecnologie, piattaforme proprietarie. Da anni investiamo sull’intelligenza artificiale: abbiamo una società quotata dedicata al settore, Almawave, che è diventata la prima società di IA in Italia. Restando nell’ambito di scelte strategiche, abbiamo investito nel settore dei trasporti e della mobilità sostenibile, perfezionando tecnologie tanto distintive da riuscire ad affermarsi in un mercato chiuso come quello nordamericano o selettivo come quello finlandese e dell’Arabia Saudita. Siamo invece usciti dal mercato dei contact center in Italia. Inoltre abbiamo fatto acquisizioni. Le ultime due nel mondo della gestione della risorsa idrica, con cui abbiamo completato la nostra offerta nel settore. E ora vogliamo portare queste tecnologie in Brasile, dove stiamo finalizzando un’altra importante acquisizione. Ma ancora non posso dire quale.
L’IA è il mantra del momento e potrebbe dare un impulso importante al Pil del paese. Voi siete stati più lungimiranti, fortunati o bravi?
Come spesso accade, è l’insieme delle componenti a portare il risultato. Intanto io sono stato bravo e me ne prendo tutto il merito, perché Almawave è stata creata da mia moglie e quindi sono stato bravo a sceglierla: ho sposato la donna giusta. Battuta a parte, siamo stati lungimiranti perché avremmo potuto cullarci sul nostro posizionamento, invece – e questo è l’atteggiamento di un imprenditore-, abbiamo cercato di capire dove stesse andando quel mercato e abbiamo definito una strategia vincente anche rispetto al confronto con i grandi vendor. Da una parte abbiamo fatto accordi con loro – è recente l’accordo con Microsoft sull’IA generativa -, dall’altra cerchiamo di declinare l’IA su domini verticali quali il turismo, dove abbiamo acquisito The Data Appeal Company, sulla sanità, sull’idrico, su ambiti strategici.
Uno dei temi di preoccupazione sull’IA è relativo all’occupazione. Per lei questa tecnologia che impatto avrà sul mondo del lavoro?
L’impatto sociale dell’IA è un tema di cui si parla molto. Concretamente, io credo che la tecnologia produca lavoro. Penso soltanto al contributo che le risorse digitali possono portare per raggiungere maggiori livelli di inclusione e sostenibilità. In Italia e nel mondo c’è una grande carenza di figure professionali nel settore digitale. La questione del salario minimo, ad esempio, non tocca questo settore, perché è un ambito in cui c’è molta richiesta e ci si contende i talenti. Non solo ingegneri e laureati in informatica, ma anche diplomati che vengono poi formati dalle academy interne. Noi assumiamo oltre 1.000 persone l’anno in Italia. Persone che possono anche lavorare totalmente da remoto, in specifici casi. Normalmente adottiamo una modalità ibrida che vede la presenza media in sede intorno al 30%.
È un sostenitore dello smart working?
Questa modalità di lavoro crea un prezioso equilibrio tra vita privata e lavorativa ed è applicabile grazie al digitale, dando opportunità di lavoro straordinarie soprattutto al Sud Italia, perché permette ai giovani talenti di restare nel territorio d’origine e non depauperarlo. Dunque, per me sono più le potenzialità create dalla trasformazione tecnologica, sia come mercato del lavoro che come organizzazione, che non le minacce.
Siete presenti in diversi asset critici del sistema paese. Si può dire che siamo nelle vostre mani?
Non esageriamo. Però qualcosa di vero c’è, perché supportiamo la digitalizzazione del paese. Quello della pubblica amministrazione è un ambito molto ampio, dove non siamo soli. Ma le faccio io una domanda: rispetto agli asset critici del paese è meglio essere nelle mani di una società italiana e della tecnologia made in Italy o nelle mani di una società estera?
Risposta facile, a pelle. Ma non è una sorta di protezionismo, in questo mondo così aperto?
Il mio non è protezionismo, non vorrei essere frainteso. Noi per primi siamo molto ambiziosi e puntiamo ai mercati internazionali. Prevediamo un fatturato in crescita il prossimo anno e, in prospettiva, vogliamo più che raddoppiare i margini e raddoppiare i ricavi, e la metà deve venire dall’estero. Ma c’è un tema di indipendenza delle tecnologie del sistema paese che va considerato. Il digitale è inserito nei gangli vitali della Pa e, da cittadino prima che da imprenditore, credo ci voglia prudenza nel cedere i domini strategici per l’Italia a società estere. Queste ultime non possono che essere focalizzate sul fare profitti più che sul garantire la sicurezza del sistema paese.
Il vostro slogan è ‘il mondo con gli occhi di domani’. Che cosa vedono gli occhi di domani, se guardano dentro Almaviva?
La determinazione che può mettere un imprenditore nel proprio disegno industriale è il motore più efficace di tutti per raggiungere un obiettivo, più dei soldi, del genio e delle competenze. Io sono totalmente determinato a fare del nostro gruppo italiano uno dei campioni mondiali nel digitale. Un disegno straordinariamente ambizioso che, con la solidità dei nostri 40 anni di storia, sono convinto di poter realizzare. Sarà una crescita per competenze, per apertura a nuovi mercati e per acquisizioni, facendo investimenti su tecnologie e su alcune specifiche aree geografiche. Mi faccia chiudere con uno slogan che mi piace tanto: da 40 anni, per noi ogni giorno è futuro.
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