Alla Biennale di Venezia Massimo Bartolini è stato tre volte. Quest’anno, l’artista nato a Cecina, in provincia di Livorno, fa dialogare con la sua opera architettura e musica.
Il Padiglione Italia alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, promosso dalla Direzione generale creatività contemporanea del Ministero della cultura, presenta Due qui/To Hear di Massimo Bartolini. Il progetto espositivo è a cura di Luca Cerizza e ruota attorno a un’installazione dell’artista.
Ci racconti le partecipazioni precedenti?
Nel 1999 incontrai Harald Szeemann alla galleria di Massimo De Carlo, che si trovava in via Bocconi, e dopo qualche mese mi invitò a partecipare alla mia prima Biennale di Venezia. Nel 2001, invece, fui invitato a una mostra curata da Pier Luigi Tazzi e Fabio Cavallucci. In quella occasione realizzai un lavoro nel giardino delle bombarde, che consisteva in uno spazio di relazione, ovvero un bar bianco, che si apriva e si chiudeva come un’ostrica.
Poi nel 2009 Dara Birnbaum mi invitò a costruire una sala multimediale per la Biennale, e ricevetti anche la proposta di contribuire al Padiglione dei Paesi Nordici, curata dal duo di artisti Elmgreen & Dragset. In quell’occasione ho edificato un pavimento obliquo, che creava una percezione distorta delle opere che erano collocate nel giardino. Infine, nel 2013, su invito del curatore Bartolomeo Pietromarchi, mi hanno affidato uno spazio residuale della precedente Biennale di Architettura, progettato dall’architetto Franco Purini, nel quale ho realizzato un sentiero con macerie di bronzo e con dei viatici alle pareti di Giuseppe Chiari.
In che cosa questa Biennale ha rappresentato un’esperienza nuova?
Se questa Biennale apporta qualcosa di nuovo alla mia esperienza personale, questo risiede nel grande impatto mediatico che ha generato attorno alla mia opera, incomparabile a tutte le altre mostre a cui ho partecipato.
Con quale spirito hai approcciato al lavoro al Padiglione Italia quest’anno in cui hai avuto la possibilità di lavorare sull’intero spazio?
Realizzare una mostra nella quale sei l’unico artista a rappresentare una nazione, che avrebbe tanti altri artisti altrettanto meritevoli e in grado di ricoprire questo ruolo, è stata per me una grande responsabilità.
Come hai concepito le due opere nelle due sale del Padiglione Italia alle Tese delle Vergini? Come mai non ha fissato un ingresso solo ma due?
Sin dall’ inizio ho pensato assieme a Luca Cerizza, curatore del Padiglione, di spogliare lo spazio il più possibile, con l’intenzione di mostrarlo nella sua nudità. In questo spazio, aperto e libero, ho cercato di connettere le due ampie stanze al giardino con la musica.
L’intento era costruire un luogo dove il visitatore possa sentire il proprio suono interiore, che contemporaneamente si combina con le sensazioni che risiedono nel luogo stesso. La doppia apertura esprime circolarità: evoca un’assenza di gerarchia che connette i tre lavori in maniera libera.
A questo progetto hanno collaborato anche altri artisti. Quali sono le modalità del tuo approccio collaborativo alla realizzazione di un’opera?
Per collaborare bisogna concepire un lavoro come se avesse delle cavità accoglienti per ospitare altri artisti che le possano abitare e in cui vi possano lavorare, influenzando tutto il progetto. Come accade nella musica jazz, alle jam session inviti altri artisti per vedere cosa sanno fare e anche per imparare da loro, per vedere quale musica si produce assieme agli altri.
L’arte è da sempre una creazione collettiva. Invitare nel progetto alcuni grandi musicisti mi ha messo nell’interessante posizione del grande fan e al tempo stesso dello studente. Ho imparato tantissimo da Gavin Bryars, la cui umanità è pari alla sua grandezza come musicista. Kali Malone e Caterina Barbieri sono stupefacenti nella loro bravura e nel cogliere esattamente l’intensità di una situazione. È stato un grande risultato per me aver ottenuto la partecipazione di questi maestri al mio progetto.
La relazione è al centro del tuo lavoro, con lo spettatore e il pubblico. Che tipo relazione-reazione pensi di instaurare con il pubblico della Biennale con questo lavoro?
Secondo me, lo spettatore è il corpo che innesca la reazione che rende il lavoro visibile. William. S. Wilson aveva trovato una bellissima definizione per lo spettatore, ovvero di “partecipante-osservatore”. Spero che il pubblico, ognuno singolarmente, scosso dal suono e dai suoi passi si pieghi con dolcezza su sé stesso e si abiti per qualche secondo.
Il tuo invito all’ascolto assume in questo momento presente dei significati particolari?
Penso di sì: più concentrazione e meno esternazione. Oiù attenzione, più giustizia e meno opinioni.
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