Il futuro dell’economia e del sociale è legato alla transizione digitale. Nella relazione fra umani e macchine e fra macchine e macchine, dunque, si decide l’efficienza di un sistema votato al rispetto dell’ambiente e della società. Quindi il manager che verrà dovrà avere, innanzitutto, la capacità relazionale adeguata. Ecco allora l’interaction design, la progettazione di questo rapporto. Un percorso che ha in Italia molti punti di riferimento. È il caso di Simona Maschi, fondatrice del Copenhagen Institute of Interaction Design, che, dopo aver formato centinaia di supermanager, è rientrata in Italia. In un monastero del 1100 a Bergamo.
Come possiamo definire l’interaction design?
È un insieme di strumenti, metodi e processi per progettare l’interazione tra persone e tecnologie digitali. Spesso queste esperienze si manifestano tra umani e umani e la tecnologia non si vede. È una pratica che include processi tradizionali di design, quindi di creatività, di capacità di visualizzare idee, prodotti ed esperienze che non esistono ancora. Insomma, tutto quello che è fondamentale nell’atto creativo, insieme a elementi di psicologia cognitiva, economia, sociologia e scienza dell’informatica. Una complessità di pratiche e di discipline che si uniscono ogni volta che si progettano nuove interazioni. Anche quando progettiamo una maniglia, un bicchiere, un tavolo, una sedia, alla fine si progetta l’interazione tra l’uomo e il prodotto. Con la nascita e la diffusione delle tecnologie digitali, questo tipo di progettazione si è allargato ed è diventato più complesso, per cui è servita un’evoluzione nella pratica del design.
Di conseguenza il design ha un ruolo da protagonista nelle pratiche di sostenibilità.
Mi piace parlare di design per la rigenerazione, per sostenere il pianeta, ma anche la società. Dobbiamo pensare a prodotti e servizi, esperienze e processi che usano risorse non solo urbane, ma anche naturali. L’obiettivo è ristabilire l’equilibro: una volta che le risorse sono state sfruttate, bisogna restituirle e – perché no – creare un surplus. Quindi design per la rigenerazione è un termine più contemporaneo rispetto al design per la sostenibilità, che è diventata un’emergenza. Credo che finalmente aziende pubbliche e private, governi e organizzazioni di ogni tipo si siano resi conto del fatto che non abbiamo molto tempo per ristabilire questo equilibrio ed è importante progettare il ruolo di ciascuno. Rispetto a questo percorso di transizione verso un futuro migliore, gli obiettivi di sostenibilità delle Nazioni unite si sono rivelati strumenti molto importanti per creare un piano condiviso da tutti. Pensiamo che ogni progetto, ogni azienda, ogni attività debba partire con l’intenzione di servire almeno uno di questi obiettivi, per dare valore sociale al proprio operato. Mettere al centro la rigenerazione è una grandissima opportunità e gli obiettivi vanno visti come la più grande ricerca di mercato mai fatta dai tempi dell’industrializzazione, perché raccontano i bisogni del pianeta e quelli della società. Se ci sono bisogni, ci sono mercati, e se ci sono mercati, esistono grandissime opportunità. È importante capire che questa transizione è un’enorme opportunità dal punto di vista del business, la più grande occasione per ricreare un equilibrio tra le risorse che abbiamo e i bisogni. È importante, però, che ci si evolva e che questa evoluzione sia progettata. Anche questo è un atto di design.
Ed ecco Copenhagen Institute. È nato in Danimarca, forma migliaia di manager e sbarca in Italia.
In realtà le origini sono a Ivrea, la città della Olivetti, dove nel 2000 è nata la prima scuola al mondo dedicata all’interaction design. Proprio negli edifici del centro di ricerca Olivetti, luogo simbolo della tecnologia per il bene. Chiusa l’azienda, insieme ad altri colleghi, abbiamo organizzato uno spin off a Copenaghen, dove abbiamo trovato un grande supporto anche da parte del governo danese. È nato così un centro di eccellenza basato su tre attività: formazione, innovazione strategica con le aziende, incubazione. Immaginate un posto con tante persone da tutto il mondo, con professioni molto diverse, che si trovano a imparare nuovi strumenti e metodologie per l’innovazione, per la rigenerazione. Un luogo cross-disciplinare dove si lavora mettendo a sistema tante discipline, per fare innovazione e generare impatto positivo sul pianeta e sulla società.
Come è strutturato Copenaghen Institute in Italia?
Stiamo aprendo a Bergamo in una sede magica, un monastero del 1100, ideale per accogliere professionisti da tutto il mondo che hanno voglia di fare un reskilling e acquisire nuovi strumenti e metodi per la transizione verso un futuro rigenerativo. Oltre al corso, organizziamo anche moduli di una settimana per insegnare un metodo e fornire strumenti.
Il binomio tra design e Italia è storicamente vincente. Anche nell’interaction design l’italianità è protagonista a livello internazionale?
Un elemento fondamentale è che il design italiano è basato sulla qualità dei prodotti e della produzione, ancorata a una forte artigianalità. Nell’ambito della personalizzazione, l’Italia ha grandi capacità, con un approccio quasi sartoriale. Anche grazie alla digitalizzazione viviamo in un’epoca in cui, con la gestione dei dati, è possibile creare personalizzazione dei prodotti e dei servizi. Ma anche la capacità di evolversi e adattarsi con grande agilità. Il nostro tessuto industriale, composto ancora soprattutto da piccole e medie imprese, consente di improvvisare ed evolversi, rispondendo ai bisogni del mercato in modo reattivo e veloce: una capacità fondamentale per l’interaction design, dove la tecnologia evolve in tempi molto rapidi. Per questo l’Italia può diventare leader nella produzione più rispettosa dell’ambiente e della società.
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