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Tra le maglie del business: alla scoperta del distretto tessile di Carpi

Articolo tratto dal numero di settembre 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

Dici Modena e hai nell’orecchio il rombo dei motori e negli occhi la silhouette delle auto più belle e veloci del mondo, qui forgiate. Ma tanto altro si muove nell’area. Per esempio, c’è un polo produttivo dove il 44% degli addetti manifatturieri è attivo nel tessile-abbigliamento, con picco a Carpi (51%): cuore di un distretto che comprende Cavezzo, Concordia, Novi e San Possidonio e che da solo contribuisce al 6% della produzione complessiva di settore del nostro Paese. Per intenderci, sono queste le terre di Blumarine, di Liu Jo – che ha tra l’altro assorbito Blumarine -, di Twin-Set e di Gaudì, marchi affermati in un mare di piccole e microimprese.

Carpi e il distretto tessile

Fra piccoli e grandi, terzisti e aziende di prodotti finiti, in questa capitale della maglieria mondiale si contano 596 realtà di maglieria e confezione, di cui 412 di subfornitura, cui si aggiungono 63 imprese di tessuti a maglia, etichette, stamperie, tintorie, serigrafie. Il tratto distintivo del distretto sta nel ricco sottobosco di contoterzismo, ossatura produttiva che assicura la massima specializzazione e, dunque, qualità. L’ultimo rapporto dell’Osservatorio triennale del Distretto del tessile-abbigliamento di Carpi racconta che il 70% delle imprese finali ha meno di dieci addetti e solo il 5% ne conta più di 50. Proporzioni che si rovesciano alla voce fatturato, poiché le prime contribuiscono al miliardo e 300 milioni di fatturato del distretto con un 7,6%, mentre le grandi aziende con il 76,9%.

Si arriva così al nodo della vicenda. Quello di numeri importanti, ma in calo progressivo. Troppe aziende, non avendo le dimensioni sufficienti per raccogliere le sfide del nuovo millennio, si sono sbriciolate, travolte dalla fiumana del progresso che anzitutto reclama sostenibilità e digitalizzazione. Incapaci di imporsi sul mercato, l’hanno subito.

Un po’ di storia

Per ricostruire gli antefatti di questo distretto si deve tornare al Cinquecento, quando Carpi già si distingueva per la produzione di cappelli e delle trecce di truciolo a essi destinati. Nel 1637, per dire, l’attività del truciolo era regolamentata e tassata, a dimostrazione del suo rilievo economico. Si venne a creare una comunità di pagliari, di trecciaiole e di partitane (che distribuivano i mazzetti di paglia), convergenti nelle botteghe dove, partendo dalle trecce finite, si componevano i cappelli. Laboratori che, sull’onda della prima rivoluzione industriale, vennero meccanizzati. In tal senso, la prima fabbrica ad ammodernarsi fu quella di Giuseppe Menotti, il padre di Ciro, l’artefice dei moti risorgimentali divampati a Modena nel 1831. I manufatti carpigiani conquistarono i mercati esteri, con predilezione per l’Inghilterra e la Francia, salpando per l’America degli Anni Ruggenti.

Poi, fra le due guerre mondiali, in Europa il cappello divenne accessorio sempre meno imprenscindibile, crisi acuita in Italia dal protezionismo fascista che stroncò l’imprenditoria vocata all’esportazione, come quella carpigiana. Ma gli imprenditori modenesi non si scoraggiarono e trovarono alternative, riconvertendo abilità e manualità, tuffandosi nella realizzazione di maglie e camicie. Venivano così gettate le basi del Distretto della maglieria e confezione.

Punti di forza e criticità

Il volume Made in Carpi di Werther Cigarini (edizioni Artestampa) racconta fatti, antefatti, punti di forza e criticità del distretto. La forza sta anzitutto nello straordinario decollo. Primo mattone nel 1951, con 1.350 addetti, lievitati a 5.628 nel 1961, sull’onda di imprese nascenti a getto continuo, alcune fortemente specializzate su un segmento della filiera, dunque contoterziste, altre impegnate a realizzare il prodotto finito attingendo a larghe mani al lavoro a domicilio. Al punto che, se all’inizio il rapporto era di un dipendente interno ogni tre lavoranti esterni, a un certo punto la proporzione fu di uno a dieci. Per questo, osserva Cigarini, fin dalle origini Carpi ebbe l’anima del distretto, “funzionante nella sua forma basica con soli due protagonisti: il commerciante-imprenditore che disegna il modello e lo vende e la lavorante a domicilio che lo produce“.

Al decollo seguì un lungo volo ad ali spiegate. Nel 1981 gli addetti erano 15mila e già da dieci anni qualche pioniere aveva festeggiato il miliardo. Il caso della signora Maria Nora, passato di mondina, quindi di ambulante, che a un certo punto prese a vendere anche prodotti da lei confenzionati: idea vincente, dunque capitalizzata. Altro miracolo all’italiana fu quello di Renato Crotti, che in sella alla sua Gilera iniziò a fare la spola tra l’Emilia e Biella per approvvigionarsi dei filati. Anche in questo caso l’idea fu vincente, e dunque messa a reddito. Tempo 20 anni e Crotti diventava uno degli uomini più ricchi d’Italia. Lungimirante, con altri industriali nel 1960 contribuì a fondare l’Istituto tecnico-professionale Vallauri, fucina – ieri come oggi – di tanti operatori di settore.

Intrigante il volto della Carpi anni Sessanta. Lo tratteggia alla perfezione un articolo del 1963 apparso sul Corriere della Sera: “Carpi è una città ricca. Ha in proporzione più automobili di Milano, l’indice di incremento edilizio è il più alto di tutta l’Emilia. Questo è il periodo dell’anno in cui Carpi è piena di buyers, di compratori, provenienti da ogni parte d’Europa. Nel maggior albergo di Carpi la lingua meno parlata è l’italiano; i telefoni sono continuamente occupati da comunicazioni internazionali”. Altro tratto distintivo: la componente femminile, che nelle fabbriche superava quella maschile. Primato che si saldò con il crescendo di stiliste, creatrici di moda e imprese come Anna Molinari, che con il marito, il conte Gianpaolo Tarabini Castellani, fondava Blumarine. Quindi Simona Barbieri, colei che lanciò Twin-Set, poi ceduto a The Carlyle Group. E Daniela Malpighi, fondatrice di Denny Rose.

L’ultimo periodo

A un certo punto l’esuberanza e la visione dei magliai della prima ora non bastarono più. A scompigliar le carte furono la concorrenza del Levante e il cambio di gusti e stili di vita della clientela. Alla selezione darwiniana sopravvissero quanti seppero cambiar pelle e strategie, anzitutto sostituendo la produzione massificata con quella di manufatti più sofisticati, alzando la qualità. Giù tante saracinesche, fine di un’epoca. Nell’ultimo decennio del secolo scorso è stato perso il 30% delle imprese e il 45% degli occupati, decimate anzitutto le aziende del pronto moda. Al giro di boa del nuovo millennio, naufragava (nel 1999) anche l’azienda di Maria Nora. Stesso discorso per quella di Crotti. In compenso ce l’hanno fatta le aziende pluricomparto, quelle che hanno puntato sulla qualità, con stilisti e comunicazione di classe. Blumarine, per esempio, si lanciò in campagne firmate da maestri della fotografia come Helmut Newton.

Oggi Carpi si è posizionata sulla fascia medio-alta (58,3% del fatturato) e alta (12,5%). C’è ancora un 30% circa (28,6) in fascia media, mentre è ormai estinto il low cost (0,6%).

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