Ettore Prandini Coldiretti
Leader

La scommessa del territorio e l’agricoltura di domani: l’intervista di Forbes a Ettore Prandini, presidente di Coldiretti

Articolo apparso sul numero di settembre 2024 di Forbes Italia. Abbonati!

I suoi colori preferiti sono il bianco e il celeste del Brescia e della Lazio. Le maglie delle rondinelle e degli aquilotti lo sorvegliano da dietro la sua scrivania. Ma questo è il calcio, la passione degli italiani. Quando si parla di lavoro e dell’impegno di tutti i giorni, allora i colori preferiti da Ettore Prandini cambiano in giallo e verde, quelli della Coldiretti, l’associazione dei coltivatori italiani con quasi 1,6 milioni di soci che guida dal 2018.

Prandini è nato a Leno, in provincia di Brescia, ha una laurea in giurisprudenza e oggi divide il suo tempo tra la presidenza della Coldiretti, un’azienda di bovini da latte e un’impresa vitivinicola con produzione di Lugana. Ricopre anche le cariche di presidente nazionale di Uecoop, della Fondazione Campagna Amica e dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. 

L’agricoltura è croce e delizia del nostro Paese: ha attraversato e attraversa mille peripezie, dalla siccità alle alluvioni, ma riesce sempre a portare sui mercati di tutto il mondo prodotti straordinari che fanno grande il made in Italy. Quindi Prandini, grazie anche alla grande ramificazione dell’associazione che guida, ha un punto di osservazione privilegiato sulla salute economica e sociale del nostro Paese. Anche perché l’agricoltura italiana non è più quella di una volta, ma ha fatto straordinari passi in avanti non solo per la qualità, ma anche per l’introduzione delle tecnologie e delle innovazioni e per il ruolo centrale che ha anche in una delle maggiori industrie italiane: quella del turismo. Forbes lo ha intervistato, partendo proprio da questo aspetto.

“Il turismo in Italia ha un margine di crescita particolarmente significativo”, racconta. “Se pensiamo a tutta l’area del Mezzogiorno, dove purtroppo abbiamo ancora una forma di turismo concentrato in pochi mesi durante l’anno, dovremmo avere una capacità di attrarre cittadini provenienti da altri paesi per almeno nove mesi. Bisogna creare una serie di iniziative che valorizzino la storia, la cultura che il nostro Paese può offrire insieme al patrimonio enogastronomico, in un insieme che diventa sicuramente grande. Ad esempio, secondo la ricerca di Coldiretti e della piattaforma specializzata I Love Italian Food (Ilif), i cittadini statunitensi che decidono di trascorrere una vacanza in Italia cercano prima di tutto un’esperienza enogastronomica. E sono convinto che l’intuizione che Coldiretti ebbe qualche decennio fa nel salvaguardare la nostra distintività, la nostra biodiversità, quindi non appiattirci nel cibo omologato e globalizzato come avviene in tanti altri paesi, sia stata vincente, perché oggi questo diventa un volano per il nostro turismo, che è una delle voci più importanti per il Paese anche in termini economici”.

Oggi qual è il rapporto tra città e campagna, dal punto di vista turistico?
Non abbiamo avuto una strategia negli ultimi decenni per quanto riguardava una difesa di un sistema produttivo enogastronomico, abbinato ad altri settori produttivi. È prevalso il tema speculativo, soprattutto per quanto riguarda il comparto dell’edilizia, che ha portato anche a un surplus di costruzione e  a un problema di invenduto.

Ma questo cosa ha causato? 
Abbiamo cementificato tante terre, troppe. L’Italia, a livello europeo, è uno dei paesi che consumano più suolo fertile. Una tendenza che va arginata, non perché non ci debba essere una giusta attenzione nei confronti delle attività produttive, ma perché dobbiamo recuperare quello che storicamente ci appartiene, con il recupero dei centri abitati, con forme di ristrutturazione degli immobili con un efficientamento in base agli standard europei, ma preservando quello che ci caratterizza, la bellezza del nostro territorio.

Un valore assoluto.
Certo. Se lo perdiamo, perderemo anche gran parte della nostra credibilità legata alle filiere agroalimentari. Pensiamo a quello che stanno facendo altri paesi, come la Francia. Il termine terroir dà valore alle produzioni agricole, abbinate a tutto il sistema della ristorazione in termini di attenzione nella valorizzazione dei prodotti, ma soprattutto si basa su una concezione dello sviluppo delle aree dedicate: in sostanza, dove si fa un’area industriale, lì si portano servizi di altissima qualità. In Italia c’è un po’ di confusione sotto questo punto di vista. Qui ci sono aree industriali mescolate ad aree artigianali, collegate comunque a zone residenziali, e tutto questo non ha proprio valorizzato al meglio il nostro territorio.

Ma non sarà proprio tutto così.
Per fortuna. Dove siamo riusciti a sviluppare aree dedicate, c’è un grande valore aggiunto. Tra l’altro questo aspetto è strettamente connesso anche alla politica che siamo riusciti a ottenere, legata al decreto legge sul fotovoltaico a terra. Nessuno di noi è contro l’energia rinnovabile, figuriamoci: siamo stati i fautori dello sviluppo degli impianti di biogas, degli impianti di biometano, del fotovoltaico sulle coperture delle nostre attività produttive, quello sospeso che ci dà comunque la possibilità di continuare a coltivare, quello a terra dove ci sono aree non idonee alla coltivazione di ciò che l’agricoltura può offrire anche in termini di capacità produttiva. Dobbiamo insomma preservare l’ambiente, il territorio nel quale viviamo. E qui c’è ancora molto da fare in termini culturali.

Facciamo un salto a Bruxelles. Ursula von der Leyen è stata appena riconfermata, cosa si aspetta? Anche perché finora non è che la politica agricola europea ci abbia dato una grande mano.
Penso che l’errore più grosso commesso nella passata legislatura sia stato creare un meccanismo quasi di scontro fra agricoltura e ambiente. Non ci poteva essere cosa più sbagliata. Dovremmo recuperare la capacità e la voglia di confronto e di dialogo basata sui dati reali e sul loro utilizzo in termini di conoscenza, lasciando da parte l’aspetto ideologico. Fortunatamente l’Europa oggi è il continente più sostenibile sul tema ambientale. L’Italia in questo si contraddistingue, essendo più sostenibile rispetto ad altri sulle filiere agricole. Da questo punto di vista, da parte della presidente von der Leyen ci immaginiamo una politica diversa rispetto a quella del passato, ma anche un’attenzione in termini di investimento.

In che termini?
Gli Stati Uniti nei prossimi anni investiranno 1.240 miliardi di dollari nel comparto agricolo-alimentare, che è un contributo diretto agli agricoltori, ma anche un contributo altrettanto importante per l’innovazione in agricoltura e per il sostegno alimentare ai più bisognosi. In Europa, invece, con la politica agricola comune a oggi sono stati stanziati 386 miliardi per cinque anni. Questo fa capire la differenza in termini di attenzione. È una sfida che l’Europa non può perdere, perché l’agroalimentare è la prima voce per le esportazioni. Perdere la sfida legata all’innovazione e a una giusta redditualità che deve essere riconosciuta alle imprese agricole rischia di farci perdere la capacità produttiva. Paradossalmente, con un aumento dell’importazione di prodotti provenienti da altri continenti, che non hanno i nostri stessi parametri anche rispetto all’ambiente.

Questo riguarda sostanzialmente la famosa Pac, la politica agricola comune. 
Sì, ma riguarda anche tante altre direttive dell’Europa. Pensiamo, per esempio, al tema del packaging: non si tratta solo di usare meno plastica, la sfida deve essere diversa. Bisogna aiutare le aziende affinché utilizzino plastica biodegradabile, altrimenti cancellare il confezionamento di un prodotto agroalimentare porterebbe all’importazione di prodotti provenienti da altri paesi che non rispettano la stessa normativa, perché quella vale solo per gli stati membri, ma non per ciò che viene importato nel contesto europeo. Secondo aspetto: c’è una questione legata allo spreco del cibo. Se non confezioniamo in modo adeguato un prodotto agroalimentare, al supermercato avrà una vita più breve, quindi un aumento del costo che andrà a ricadere sulla vita dei cittadini, ma soprattutto c’è il rischio di un aumento esponenziale di spreco di cibo.

Quindi cosa servirebbe?
Serve conoscenza, non improvvisazione. Quello delle plastiche è solo un esempio di un settore che rischiava di avere una normativa particolarmente penalizzante su tutta la filiera agroalimentare. Ma a questo bisogna aggiungere altre normative, come quella degli agro-farmaci. Oggi in Europa utilizziamo i prodotti più evoluti, ma i primi a volerne fare minor uso sono gli agricoltori, perché generano un costo, mentre con strumenti tecnologici, come i droni e i satelliti, potremmo diminuire ulteriormente l’utilizzo di agro-farmaci. Dobbiamo però accompagnare tutte le imprese, non solo una parte, con sostegni anche di carattere economico, per poter adottare queste innovazioni che sono disponibili nel settore agricolo. 

Il problema degli agro-farmaci va poi a impattare anche con i problemi di concorrenza nelle importazioni.
Infatti dobbiamo attuare un meccanismo di reciprocità, cioè le stesse regole imposte alle imprese agricole italiane o europee devono valere quando importiamo prodotti da altri continenti. L’Europa negli ultimi 30 anni ha diminuito l’utilizzo di agro-farmaci, l’Italia del 23%, mentre il Brasile l’ha aumentato del 51%. Quindi, se favoriamo l’importazione di prodotti provenienti da questo paese o da sistemi produttivi diversi rispetto al nostro, che non utilizzano la stessa qualità di agro-farmaci, ci troviamo davanti a una forma di concorrenza sleale, perché quei prodotti costeranno molto meno rispetto ai nostri e qualitativamente varranno molto meno, creando per di più anche un rischio per la salute. Il tema è la reciprocità, non la chiusura dei mercati. Siamo i primi a voler aumentare le nostre esportazioni, siamo in un mercato aperto, quindi è normale che si possa importare anche in Europa, ma le regole devono essere uguali.

Non c’è solo un problema di confezionamento, ma c’è anche un problema di etichetta, che spesso non racconta esattamente l’origine del prodotto. Come ci si difende?
È vero. Ci si difende con l’obbligo dell’origine. È una norma molto semplice: dove l’abbiamo attuata ha dato risposte particolarmente significative. Penso al comparto del lattiero-caseario. Prima di introdurre l’obbligo dell’origine producevamo solo circa il 55% del fabbisogno nazionale, oggi abbiamo superato ampiamente l’80%.

Perché?
Perché il consumatore non deve essere ingannato, ma deve essere protagonista della propria scelta, nella consapevolezza di quello che acquista. Poi deve essere libero di decidere. Quindi, se vuole acquistare un prodotto italiano, deve essere un prodotto italiano; se vuole acquistare un prodotto proveniente da altri paesi, da altri continenti, è giusto che sia messo nella condizione di sapere cosa sta acquistando. Ora in Italia, se voglio un formaggio fatto con latte 100% italiano, posso saperlo. Nel resto d’Europa no. Per noi è importante, perché è anche un aspetto di carattere formativo culturale rispetto alle dinamiche produttive che riguardano le nostre imprese, che sono diverse rispetto a quelle di tanti altri paesi, in termini di attenzione, di controllo, di qualità del prodotto. Quindi, quando si generalizza rischiamo di perdere, quando invece c’è trasparenza sulle filiere agroalimentari l’Italia vince. È quello che vorremmo venisse attuato almeno nel contesto europeo fra i 27 stati membri.

 
Avete accolto positivamente il disegno di legge sull’agricoltura. Quali sono i passaggi più importanti? 

Penso che il decreto legge sull’agricoltura sia la continuità di un lavoro che è iniziato durante la scorsa finanziaria, in termini di attenzione a un settore che ha accumulato criticità negli ultimi decenni. Quindi non si può risolvere tutto con il decreto legge, però è un ulteriore passo in avanti e dovremo continuare a lavorare nei prossimi anni per cercare di arrivare a risposte concrete e importanti ai bisogni dei nostri imprenditori. Abbiamo applaudito la scelta del governo perché è arrivata dopo un lavoro significativo nell’ultimo anno a livello europeo, per quanto riguardava una serie di norme che ci impedivano, ad esempio, di attuare una moratoria nei confronti dei debiti delle nostre imprese, che negli ultimi anni avevano avuto una perdita significativa legata ai propri fatturati, a causa di danni ambientali come la siccità o le alluvioni. Il lavoro fatto in Europa, tradotto nel decreto legge in Italia, darà la possibilità, per i primi 12 mesi, della sospensione degli adempimenti nei confronti degli istituti di credito. Ci auguriamo che possa essere allargata a ulteriori 12 mesi. 

Il clima ormai sembra impazzito. Si passa da piogge torrenziali a periodi di siccità. Gli agricoltori come possono difendersi?
Le infrastrutture idriche, in tanti casi, trattengono solo il 30-40% dell’acqua che potrebbe essere immagazzinata, perché non sono più state fatte le manutenzioni dei bacini esistenti. Questo fa riflettere su quanta trascuratezza e poca lungimiranza ci sia stata. Poter immagazzinare acqua diventa fondamentale: nel comparto agricolo, dove c’è acqua a disposizione, abbiamo delle rese per superficie molto più alte rispetto a dove l’acqua non c’è. Per esempio, in Lombardia sul 30% dei terreni irrigui si produce l’80% del valore dell’intera filiera agricola. Quindi, oltre alla manutenzione dell’esistente, dobbiamo fare un investimento strutturale e infrastrutturale per quanto riguarda nuovi bacini di accumulo con pompaggio, che danno la certezza di avere acqua quando ce n’è bisogno, ma anche di sviluppare la vera energia rinnovabile, quella più pulita di tutte, che è l’idroelettrico.

Si tratterebbe di investimenti rilevanti.
Certo, ma investire significa innanzitutto contenere i danni, che ogni anno fanno registrare perdite per miliardi di euro. E poi serve a far crescere i territori, significherebbe mantenere le persone su quei territori, perché quando si hanno situazioni di siccità, come stiamo vivendo in Puglia, in Sicilia, in Calabria, in Campania, c’è il rischio che poi ci sia anche una forma di abbandono e di trascuratezza. Questo, secondo noi, è il primo investimento che dovrebbe essere fatto. Perché c’è un altro elemento: è vero che c’è la questione dei fenomeni atmosferici, con una concentrazione della piovosità in questo caso, ma la quantità di acqua nell’arco dell’anno è la stessa, quindi dobbiamo avere noi la capacità di trattenerla. Ultimo punto: è sotto gli occhi di tutti che nel 2024 abbiamo ancora una rete idrica che perde circa il 50% di acqua. È un’ulteriore situazione assolutamente inaccettabile.

Non ci sono solamente i danni del maltempo, ma anche quelli degli animali, per esempio dei cinghiali.
In tutto il territorio abbiamo un enorme problema di fauna selvatica incontrollata. Nessuno di noi vuole la cancellazione delle specie presenti, ma dobbiamo ritornare a un giusto equilibrio tra il numero di animali sul nostro territorio e le sue caratteristiche. È evidente, per quanto riguarda i cinghiali, che questo equilibrio è venuto meno: ci dovrebbero essere circa 400mila cinghiali, invece ce ne sono più di due milioni e mezzo ormai. Una situazione che pone una serie di criticità soprattutto rispetto a una tenuta dalla capacità produttiva. Spingiamo con orgoglio i nostri giovani a continuare a svolgere l’attività agricola, ma in tanti casi si vedono distrutti per più anni il 70% del loro raccolto per la presenza di ungulati. Dobbiamo fare una riflessione, perché il rischio è una caduta di carattere ambientale e di presidio del territorio nel quale si vive.

Abbiamo parlato di Bruxelles, finiamo parlando anche di Washington. Il risultato delle elezioni americane può incidere in qualche modo sulle politiche di scambio?
Mi auguro che questo non avvenga, perché vorrebbe dire sminuire un rapporto storico di alleanze che ha sempre contraddistinto l’Europa e gli Stati Uniti proprio in termini politici. Piuttosto strutture importanti come Sace e Ice devono essere ulteriormente valorizzate. Matteo Zoppas, come presidente dell’Ice, sta facendo un lavoro importante e dobbiamo continuare a collaborare con le nostre istituzioni per valorizzare sempre di più l’esportazione delle eccellenze. Un semplice dato: l’agroalimentare negli ultimi dieci anni è cresciuto in modo costante, cosa che purtroppo altri settori non hanno fatto. Anche nel 2024, se i numeri verranno confermati, avremo un’ulteriore crescita delle esportazioni e pensiamo di poter passare da 64 a 70 miliardi.

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