Articolo tratto dal numero di aprile 2025 di Forbes Italia. Abbonati!
Prestate attenzione a ogni testa, anzi, piede coronato: c’è un tocco italiano. A essere pignoli, parabiaghese, perché gran parte delle calzature indossate da re, regine, principi e principesse sono made in Parabiago, il comune di 28mila abitanti, alle porte di Milano, che da un secolo abbondante è la mecca della scarpa. Da Kate a Rania, fino alla più elegante di tutte le monarche, ovvero Letizia di Spagna, passando per i dignitari del Medio Oriente, quando in capo c’è una corona, o comunque si tratta di un personaggio pubblico per cui – parafrasiamo – l’abito e gli accessori eccome se fanno il monaco, molto probabilmente ai piedi vedremo calzari italiani, e spesso fatti a Parabiago. Giusto un esempio: il giorno delle nozze con l’allora scapolone più conteso al mondo, George Clooney, Amal Ramzi Alamuddin indossava scarpe confezionate nell’atelier parabaghiese di Gerolamo Cucchi.
Le origini del distretto di Parabiago
Tutto ebbe inizio con Felice Gajo, ideatore dell’Unione Manifatture di Parabiago, e Paolo Castelnuovo, che nel 1899 fondò la prima fabbrica di scarpe. Per questo distretto si apriva un secolo di corsi e ricorsi. Li sintetizza per noi Lorenzo Valsecchi, alla testa del calzaturificio Vittorio Valsecchi, avviato dal nonno come sapere artigianale nel 1927 e come vera attività imprenditoriale nel 1964 con il figlio Vittorio. Un’imprenditoria decollata solo nel secondo dopoguerra, però anticipata da mezzo secolo d’artigianato, da bottegucce e singoli calzolai che punteggiavano ogni cortile di Parabiago, cuore delle tipiche case di corte lombarde. Poi, racconta Valsecchi, si distinguono tre fasi.
“Il primo periodo, dagli anni ‘50 alla fine degli ‘80, vide una massiccia presenza di pmi, intorno alle 200. Il mercato di rifermento era costituito dai negozi indipendenti – per intenderci, gli odierni multibrand – che riuscivano ad assorbire la maggior parte della rete distributiva in Italia e in Europa”. Per procacciare nuovi clienti e gestire quelli acquisiti, ci si rivolgeva ad agenti e rappresentanti. “È stata la nostra età dell’oro, le scarpe di Parabiago erano presenti in tutto il mondo con proprio marchio”, aggiunge Valsecchi, che conduce l’azienda – 35 dipendenti e un fatturato di 6 milioni – con moglie e figli, la classica conduzione familiare dove “tutti fanno tutto”.
Anni di crisi
Con gli anni Novanta si apriva un ventennio critico, il numero delle imprese crollava per “la concorrenza di altri produttori nazionali, marchigiani, toscani e dell’Italia meridionale. Poi incideva l’adozione dell’euro e, dunque, la perdita di potere di acquisto delle famiglie. Seguivano le crisi internazionali, in particolare quella del 2008, e il difficile ricambio generazionale”. S’aggiunga il fatto che andavano affermandosi i grandi marchi della moda, spalle larghe e, dunque, capacità di dominare il mercato. È quella la fase in cui le aziende sopravvissute, salvo rare eccezioni, come Fratelli Rossetti, si concentravano sulla collaborazione con i grandi marchi, producendo per conto terzi. Della produzione Valsecchi, per esempio, solo il 10% finisce nel proprio outlet, il resto è polarizzato dalle griffe.
Dal 2010 la riduzione di aziende è andata acuendosi. Morte le piccole imprese, sono sopravvissute le medie e le grandi, e delle 200 degli anni d’oro, solo 20 sono sopravvissute alla selezione darwiniana. Nel frattempo sono arrivate maison di classe come Hermès, Louboutin e Chanel, che nel 2000 ha rilevato la sua storica fornitrice Roveda, fondata nel 1955 da Giovanni Roveda.
La storia di Fratelli Rossetti
Brilla, dunque, a maggior ragione il marchio Fratelli Rossetti, che da settimane trionfa all’aeroporto di Milano Malpensa con la nuova campagna pubblicitaria dove l’alto artigianato viene comunicato attraverso il surrealismo di Marcin Kempski. Del resto, hanno sempre ben fatto, ma anche ben comunicato i fratelli Rossetti, Diego, Dario e Luca, figli del fondatore Renzo, che giovanissimo, in un’Italia appena liberata dal giogo della dittatura, iniziava a occuparsi di scarpe sportive. Nel 1953 fondava l’azienda con i fratelli Renato e Ugo, poi vennero gli anni del mocassino Brera, quindi dello stivale Magenta, delle collaborazioni con stilisti della statura di Armani, Lagerfeld, Cardin, Hermès. Poi l’intuizione di aprire boutique nelle metropoli che contano: Milano (in via Montenapoleone), New York, Londra e Parigi. Negli anni Ottanta era tempo di logo, tutta sostanza e zero fronzoli. A crearlo erano i designer Massimo e Lella Vignelli.
“Papà fu il primo imprenditore italiano a comprendere la forza di un punto vendita nelle vie della moda newyorchese. Noi ci posizionammo a Madison Avenue”, spiega Diego Rossetti, presidente di un’azienda che fattura 47 milioni, con 300 dipendenti, tra cui 130 attivi nella produzione: tutta a Parabiago. “Appena entrato in azienda, gli chiesi un budget per portare avanti questa iniziativa, che inizialmente fu un bagno di sangue, un debutto durissimo, perché gli americani non erano avvezzi al negozio monomarca e tantomeno al nostro stile. Gli uomini, per esempio, indossavano solo scarpe nere. Abbiamo persistito, e alla fine vinto”.
Si contano sulle dita di una mano, o poco più, i calzaturifici assimilabili a Fratelli Rossetti, dunque d’alta gamma, con produzione interna al 100%, di grandi dimensioni e focus esclusivo su scarpa e borsa. Da un lato abbiamo le griffe di alta moda che coprono diversi segmenti, dall’abbigliamento ai profumi, dall’altro imprese che operano per conto terzi. Stare nell’intercapedine dei due universi non è semplice, eppure è possibile. “Confidiamo nella fedeltà dei clienti, che ci conoscono e dunque ci seguono, ma allo stesso tempo stiamo raccogliendo la sfida di attrarre nuova clientela, che profiliamo mettendo in campo le più aggiornate tecnologie”, sottolinea Diego Rossetti.
Il problema della manodopera
E infine pende su Parabiago, come su tutta la manifattura italiana, la temuta Spada di Damocle: la carenza di manodopera. Scopriamo che le imprese più piccole arrivano a erogare stipendi da tremila euro pur di evitare che i dipendenti migrino verso le realtà dal nome potente che – si suppone, ma non è detto – possono dare maggiori sicurezze. Anche in questo distretto si lavora per promuovere corsi di formazione e per “comunicare che il lavoro manuale non è lavoro sporco, vanno abbattute barriere culturali. Come è possibile che a fabbriche come le nostre, dove è richiesta ancora tanta manualità e dunque non si rischia l’asservimento alla macchina, si preferisca l’impiego in un call center?”, si domanda giustamente Rossetti.
In questa fase storica, in cui l’Europa è sempre più un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di vasi di ferro, si moltiplicano le sfide per un distretto come quello di Parabiago. Le aziende rimaste – il 10% rispetto a quanto si registrava negli anni d’oro, gli Ottanta – sono il frutto della reazione ai molteplici shock dall’alba del nuovo millennio a oggi. Sono rimasti i migliori, quelli che hanno alzato l’asticella delle prestazioni dell’industria italiana, che ha preso a viaggiare a ritmi analoghi a quelli francesi e tedeschi. Un distretto con meno numeri, però dal peso specifico importante.
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