di Dario Pettinelli
Undici milioni di bottiglie prodotte all’anno, distribuite in 100 Paesi nel mondo; 1056 ettari di vigneti, 485 di colture diverse dalla vite, 376 dipendenti: sono i primi numeri del gruppo Banfi in Italia, una realtà che dopo 42 anni di presenza in Toscana e Piemonte, nel 2020 ha fatturato 59 milioni di euro (Banfi Srl + Banfi Società Agricola).
Quella di Banfi in Italia è una storia di pionierismo: alla fine degli anni ’70 nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che Banfi è oggi. Nessuno tranne chi ha fatto l’impresa. Pionierismo quindi ma prima di tutto visione, condivisione e rispetto, i quattro valori guida del gruppo.
Quali sono state le leve strategiche di questa crescita? Risponde Remo Grassi, presidente Banfi Società Agricola: “Rispetto e indomabile ricerca dell’eccellenza. Il capitale di questo business è rappresentato da due fattori: territorio e persone. Banfi è una realtà che, includendo gli stagionali, ha 400 dipendenti, per tre quarti a tempo indeterminato, risorse umane del luogo. Il rispetto secondo Banfi è declinato con la restituzione: siamo venuti qui, stiamo qui, viviamo di questo territorio con queste persone e quindi restituiamo. In lavoro certo, ma quello che mi sta più a cuore è la crescita delle persone: formazione continua, offerta culturale, integrazione con la comunità. Il meglio dalle persone lo si ottiene se si investe nella loro crescita e per la loro felicità.
Nell’anno a causa del covid è crollata la distribuzione Ho.Re.Ca. e sono decollate nuove forme di comunicazione e vendita: cosa ha suggerito il comitato strategico del gruppo?
Riteniamo che la risposta sia nell’omnicanalità e in una maggiore capillarità della distribuzione; ma anche più empatia verso il mercato, verso i nostri clienti e appassionati.
I progetti di corporate social responsability hanno subito rallentamenti o variazioni?
No, perché vede, la sostenibilità non è una moda del momento, un trend da cavalcare al bisogno. Si tratta di un valore fondante, è come una sorta di chiave musicale all’inizio del pentagramma. Una vision che Banfi ha fin dagli anni della fondazione: i primi anni iniziammo concimando con approccio organico per la rigenerazione naturale delle terre e creando ben 9 laghi, come riserva idrica; negli anni successivi abbiamo studiato ogni parcella, completato la microzonazione interna e oggi questo lavoro ci consente di rispondere alle conseguenze del cambiamento climatico. Abbiamo anche studiato forme di allevamento per questo e piantato quello che chiamiamo “alberello Banfi”.
Con quale strategia il gruppo si confronta con i mutamenti climatici?
La strategia è molto semplice: il capitale è il territorio; va difeso, curando la terra e rafforzando le piante, cos’altro vuole fare sul campo? Parallelamente, la promozione di stili di vita e di produzione sostenibili. Neutralità verso il carbonio, pratiche di gestione virtuose nei confronti dell’ambiente. Siamo la prima azienda di Montalcino, siamo consapevoli di avere anche la responsabilità dell’esempio.
Proprietà americana ma il management è 100% italiano. Si partiva da zero agli inizi dei ruggenti anni ’80: quanto tempo è stato necessario per avere la macchina-azienda tirata a lucido?
Ci sono voluti venti anni per darsi una struttura aziendale, che è sempre in evoluzione naturalmente, ma che appunto partiva da zero. Dagli anni duemila si entra nell’era moderna della nostra storia. Nel 2017 abbiamo avviato un progetto di 6 anni con il CREA e la Fondazione S. Michele all’Adige che ha avuto lo scopo di sperimentare vitigni di nuova introduzione. Venticinque nuovi vitigni in due vigneti sperimentali, gestiti con tecniche agronomiche innovative. Nel 2022, quelli che risponderanno ai nostri standard di qualità saranno proposti per l’inserimento nel registro nazionale delle varietà di vite o negli elenchi dei vitigni idonei alla coltivazione nella Regione Toscana.
E’ allora che si inizia a parlare di “zonazione secondo Banfi”?
O meglio, zonazione interna. La conoscenza del territorio è essenziale: Banfi ha mappato e microzonato tutto, crede nella valorizzazione di ogni specifica zona, fino alla parcella. Cosa diversa dalla zonazione geografica tout court, nord/sud/est/ovest.
Quindi lei vede un futuro del Brunello nel quale ogni azienda valorizza il suo Cru, non la suddivisione per versanti.
Si, questo è il futuro del Brunello.
Dal 1986 la Fondazione Banfi e dal 2017 anche l’Alta Scuola del Sangiovese, Sanguis Jovis: continuate a investire molto sulle attività non core business…
Tecnicamente non sono core, ma in realtà sono essenziali, rappresentano un enorme valore aggiunto, una sorta di conditio sine qua non. Un marchio come questo che fa del rispetto il primo carattere identitario, è naturalmente vocato e ha a cuore la formazione, la ricerca scientifica, la condivisione dei saperi.
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