Articolo tratto dal numero di luglio 2023 di Forbes Italia. Abbonati!
Registrato all’anagrafe come Corrado Catani, nel Montefeltro marchigiano è passato alla storia come don Jeans. Per la verità non fu lui a introdurre il jeans nelle Marche, ma creò i presupposti perché fiorisse la cosiddetta Jeans Valley nella provincia di Pesaro-Urbino, con epicentro a Sant’Angelo in Vado e diramazioni a Fermignano, Peglio e Mercatello sul Metauro, nella valle del Cesano fino a Ostra.
I numeri della Jeans Valley
Correvano gli anni Cinquanta quando don Catani avviava laboratori di cucito posando la prima pietra di un distretto che oggi conta 327 unità locali, perlopiù fasonisti attivi conto terzi, e 2.200 addetti. L’80% delle aziende ha meno di dieci dipendenti e un altro 19% meno di 50. Si stacca un quartetto di imprese di medie dimensioni, dunque sotto i 250 dipendenti, perlopiù produttori di jeans per aziende di alta gamma italiane e straniere. In questa valle non manca un solo anello della filiera: si va dallo sviluppo del cartamodello alla commercializzazione del prodotto finito. In mezzo ci sono realizzazione del prototipo, accessoriamento, lavaggio, resinatura, laser, ghiaccio, graffiatura, stiraggio.
Quanto all’export, dopo il picco dei 158 milioni toccato nel 2007, i flussi delle esportazioni sono andati calando, attestandosi intorno ai 98 milioni di euro nel 2019 (-26% rispetto al 2018), per poi scendere di un ulteriore 26% nel 2020 a causa della pandemia.
L’evoluzione
Numeri importanti, ma non comparabili con quelli degli anni in cui le imprese nascevano a getto continuo, per gemmazione dall’azienda madre di don Catani, che dopo il secondo conflitto mondiale avviava un laboratorio di grembiuli e abiti per conto dell’Opera Diocesana di Assistenza per offrire un impiego alle vedove di guerra. Partito con macchine artigianali e passato velocemente a quelle industriali, l’intraprendente sacerdote si occupava in prima persona delle commesse e dello studio dei mercati. Il successo fu tale che altri, alla fine degli anni Sessanta, vollero replicarlo, concentrandosi però sui capi in jeans.
All’alba degli anni Ottanta l’area di Pesaro-Urbino si tingeva di blu grazie ai 12mila addetti che vi operavano. Poi fu un susseguirsi di crisi, con la morsa che stringeva fino alla Caporetto del 2008, quando si andò delineandosi uno spartiacque fra sommersi e salvati. Salvati dalla riorganizzazione del lavoro, dalla messa in campo di nuove strategie, e, su tutto, dalla comprensione che l’onda della quarta rivoluzione industriale andava cavalcata e non subita. Tra i salvati brilla la media impresa Blueline, avviata nel 1976 da Franco Stocchi.
Da Valentino a Ferrè
La Jeans Valley non ha dato i natali a un imprenditore del calibro di Renzo Rosso, il fondatore del marchio Diesel e della galassia Otb. Perché? Per la verità, il jeans made in Italy ha avuto un imprenditore di smalto internazionale, ma bisogna andare al passato remoto e uscire dalla valle del Metauro, pur rimanendo nelle Marche. Alludiamo a Sante Castelletti, che, con i fratelli Franco e Guido, fondava ad Ascoli Piceno la Italiana Manifatture. Era lui, negli anni Sessanta, a contribuire al diffondersi della cultura del jeans, prima ancora che del prodotto.
Concessionario del marchio Lee, lanciava marchi propri, in testa Pooh, avviava collaborazioni con stilisti in quel momento lontani dal mondo del jeans, a partire da Valentino, seguito da Gianfranco Ferré, Enrico Coveri e Kenzo per citarne alcuni. Negli anni Ottanta la Im contava tremila dipendenti e 13 sedi produttive, per un fatturato di 400 miliardi di lire. “Io e i miei fratelli”, racconta la figlia Alessia, “siamo cresciuti in una casa dove termini come ‘made in Italy’ e ‘cultura d’impresa’ erano moneta corrente. Solo in seguito ne ho compreso il carattere visionario. Se in Italia e nelle Marche ci sono tante belle realtà imprenditoriali legate al jeans, è anche perché molti hanno tratto ispirazione da mio padre”.
Manifattura di qualità
Le Marche si collocano al secondo posto dopo il Veneto per quota di occupati manifatturieri, tanto che, se il peso del lavoro nelle imprese manifatturiere italiane è pari a un quinto (20,2%) del totale dell’occupazione, nelle Marche sale al 27,8%. Seguono l’Emilia-Romagna con il 27,2%, la Lombardia con il 26,0% e il Friuli-Venezia Giulia con il 25,6% (dati Confartiginato Imprese). Pesano però il nanismo e l’attitudine contoterzista delle imprese marchigiane, e s’aggiunga la lentezza nell’abbracciare la transizione digitale, esclusa la provincia di Ancona. Le altre quattro province della regione sono tra le peggiori 20 in Italia per dotazione di infrastrutture digitali (vedi il Focus Territori condotto da Cdp Think Tank e coordinato da Andrea Montanino).
Manifattura vuol dire abilità manuale o mani intelligenti, come amava definirle Carla Fendi, che tra le prime portò alla ribalta il tema di professioni e botteghe a rischio estinzione. Ne abbiamo parlato con Francesco Lenti, amministratore delegato di Blueline. “Il grande problema di oggi è il capitale umano: è sempre più difficile reperire manodopera, qualificata e non, trovare persone interessate a questo tipo di lavoro che, tra l’altro, offre ampi margini alla creatività del singolo. Non c’è più il sistema della catena anni Settanta e Ottanta. Il reperimento di manodopera è un problema generale, ma se in alcuni settori, come la meccanica, si può sopperire con macchinari, per noi l’abilità manuale è fondamentale: le mani d’oro delle sarte sono preziose.
La fascia d’età che ancora tiene è quella delle over 40, ma tra i giovani troviamo il deserto, constatazione che mi rende pessimista in tema di sostenibilità di questo modello. E non dimentichiamoci che i francesi, quando vengono in Italia per acquistare le nostre aziende, non sono interessati alle strumentazioni e ai macchinari delle imprese, puntano dritti al capitale umano. Abbiamo avviato anche collaborazioni con scuole e università di Urbania, ma chi si diploma preferisce puntare su Milano, attratto dalla sirena dei grandi marchi, anche se per stage a poche centinaia di euro mensili”.
La valle del denim
• Blueline Project
Franco Stocchi (1946) è l’incarnazione di una bella storia dell’Italia che fu. Giovanotto, migrava in Svizzera come fresatore. Al rientro nelle Marche creava un’officina per produrre telai per moto, fino a quando la Benelli, cliente chiave, andava in crisi. Stocchi non si arrendeva, cambiava pelle lanciando, col fratello Mario, la Blueline Project (1976). Tempo pochi anni e già operava per grandi marchi: da Biagiotti a Banana Republic, Cotton Belt, Rifle. La Blueline Project oggi fa parte del Blueline Group, con Franco Stocchi primo azionista della quotata Mittel. Il gruppo comprende settori che vanno dalle ceramiche di design ad automotive e case di cura. Nel campo moda si contano, fra gli altri, i marchi Jeckerson e Ciesse Piumini.
• Ideal Blue Manifatture
Entrata a far parte del gruppo Florence, il polo tessile controllato per il 65% da un consorzio, Ideal Blue Manifatture nasceva a Urbania nel 1976 da un’idea di Piero Moretti e Teresa Stocchi. I due, marito e moglie, iniziavano come fasonisti in campo sartoriale, passando nel 1999 al denim di fascia alta.
Oggi Ideal Blue supporta il processo di industrializzazione del capo di abbigliamento dalla fase di ideazione fino alla logistica. Ideal Blue Manifatture è una delle poche realtà europee ad aver rivoluzionato il processo di lavaggio industriale del jeans, grazie all’introduzione della tecnologia laser. Con Silvia Moretti, figlia dei fondatori, quale amministratore delegato, l’azienda conta 140 dipendenti e due stabilimenti. Trecentomila i prodotti creati ogni anno, 30 milioni i ricavi.
• International Promo Studio
La Ips è stata fondata nel 1994 dalla famiglia Marzioni. Enrico ne è tuttora il presidente e ad. L’azienda, che ha visto l’ingresso di Star Capital, cura con e per le principali maison del lusso internazionale il ciclo completo di progettazione, gli acquisti e la produzione: dalla ricerca allo studio e realizzazione di cartamodelli e prototipi, fino alla produzione di capi abbigliamento sfilata e prêt-à-porter per le linee uomo, donna e bambino. Ha da poco lanciato l’iniziativa Project 4Sustainability per rendere i processi di produzione più verdi, riducendo la quantità complessiva di sostanze chimiche utilizzate ed eliminando le sostanze tossiche.
• Lavanderia Centro Italia
In quest’azienda avviata da Fabio Pedini a Sant’Angelo in Vado, si trattano tessuti di grandi marchi, da Gucci a Cucinelli, Saint Laurent, Louis Vuitton, Givenchy, Fendi. Tessuti e qualcosa di più: si va dalle borse Balenciaga agli stivali e mocassini Dolce & Gabbana. Pedini avviava una stireria virando verso un’impresa che offrisse una serie di trattamenti dei tessuti. Quanti? Un’infinità, tutti consultabili grazie all’archivio di 15mila capi. Praticamente un’enciclopedia del jeans. Una storia di innovazioni continue, avviate nel 1986, anno di fondazione dell’azienda.
• Moda Italia
Nata agli inizi del Duemila da un’idea di Massimo Marzioni e Anna Maria Barzi, si propone come partner nel settore abbigliamento/sportswear uomo e donna. Come altre imprese di questo distretto, nel 2018 si è aperta a un fondo – Star Capital -, benché i Marzioni detengano il 30% delle quote, con Anna Maria Barzi come amministratore delegato e Massimo Marzioni presidente.
• Pmj
Nel 2008 chiudeva l’azienda tessile di famiglia, a Sant’Angelo in Vado. Poco più che 30enne, Andrea Sassi si è reinventato lanciando una linea di abbigliamento per motociclisti, facendo tesoro dell’esperienza nel settore del jeans. È nata così la ProMo Jeans, concentrata su indumenti pensati per attutire le cadute, anti-abrasione e con tasche in cui inserire le protezioni per le ginocchia, oltre che in giacche jeans con imbottiture capaci di proteggere le spalle.
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