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Dentro la testa di Donald Trump

Se davvero Trump ha definito la Casa Bianca “una catapecchia”, ora certamente ha cambiato idea. Nel piccolo studio dell’ala ovest della Casa Bianca dove impila le sue carte e consuma i suoi pasti su quella che chiama “scrivania di lavoro”, il presidente si sofferma a parlare di un candelabro che ha fatto installare e dei ritratti a olio di Lincoln e di Teddy Roosevelt. Apre con un colpetto la porta del suo scintillante bagno privato, un must per il misofobo-in-chief. Ci porta fuori a vedere la calma immota della piscina. E poi dentro lo Studio Ovale, appena ristrutturato con tende, tappeti e finiture che tendono marcatamente all’oro, passa la mano sullo stesso Resolute desk dove John Fitzgerald Kennedy ha gestito la crisi dei missili cubani e dove Reagan ha combattuto la guerra fredda, il cui unico abbellimento sono due telefoni e un pulsante. “Questo è molto bello”, dice il presidente.

Potrebbe altrettanto facilmente stare presentando un attico della Trump Tower o una tessera da membro al Doral Golf Club, e nel corso di quasi un’ora di intervista nello Studio Ovale, il presidente Trump è apparso sempre lo stesso Citizen Trump che Forbes ha visto negli ultimi 35 anni.

Trump si vanta, con un’iperbole che qualsiasi allievo di Franklin Delano Roosevelt o perfino di Barack Obama potrebbe invalidare: “In nove mesi ho fatto passare più leggi di qualsiasi altro presidente. Abbiamo fatto approvare più di 50 proposte di legge. Non parlo solo di ordini esecutivi, che sono importanti. Intendo progetti legislativi”.

Contrattacca, in questo caso mirando al segretario di Stato Rex Tillerson, che si dice abbia dato al suo capo dell’imbecille: “Credo che sia una fake news, ma se l’ha fatto, dovremo confrontare i risultati dei test del quoziente intellettivo. E vi posso già dire chi vincerà”.

E soprattutto, si autopromuove dicendo: “Io ho un’altra proposta di legge… una fantastica proposta di sviluppo economico. Di cui nessuno sa nulla. E di cui lei sente parlare per la prima volta… Incentivi per lo sviluppo economico alle aziende. Incentivi perché le aziende restino qui”. Le aziende che mantengono i posti di lavoro in America sono premiate; quelle che mandano il lavoro all’estero vengono “penalizzate severamente”. “È contemporaneamente il bastone e la carota”, dice il presidente. “È un incentivo a rimanere, ma forse di più: se te ne vai via sarà difficile per te pensare che potrai tornare a vendere i tuoi prodotti nel nostro paese”.

Ed eccolo qua, il primo presidente a venir fuori unicamente dal settore privato, che rappresenta il partito che per più di un secolo ha celebrato il capitalismo del laissez-faire e il libero mercato, che propone che il governo punisca o premi le aziende a seconda di dove queste decidono di stabilire i loro impianti e i loro uffici. Il presidente è suo agio con questa idea?

“Molto”, replica. “Quello che voglio fare è stabilire un principio di reciprocità. Vede, io penso che il concetto di reciprocità sia un’idea molto soddisfacente. Se qualcuno applica maggiorazioni (alle importazioni, ndr) del 50%, noi dovremmo fare altrettanto. Ma in questo momento loro applicano queste maggiorazioni e noi non gli facciamo pagare nulla. Questo non mi va giù”.

E non gli è mai andato giù. Donald Trump non si è arricchito creando nuove imprese, malgrado gli anni di energica promozione del brand attraverso lo show tv The Apprentice e i milioni di voti di persone bramose di quel tipo esatto di esperienza. No, la sua specialità sono le compravendite: comprare, vendere e fare affari che gli garantiscono una vincita indipendentemente dal risultato altrui. Questa sfumatura è importantissima. Imprenditori e uomini d’affari creano e gestiscono aziende che hanno innumerevoli parti interessate – azionisti, clienti, impiegati, partner e comunità locali – che in teoria si dividono il successo. Sotto la guida di Steve Jobs e Tim Cook, Apple ha aiutato i suoi primi azionisti a moltiplicare il valore del loro investimento quasi 400 volte, ha trasformato migliaia di dipendenti titolari di opzioni in milionari (incrementando la base imponibile per le tasse locali), ha fatto simili miracoli per il fornitore taiwanese Foxconn e ha reso i clienti così follemente felici da renderli disposti ad aspettare tutta la notte per sganciare centinaia di dollari per prodotti che diventeranno obsoleti due anni dopo.

Le persone che concludono affari raramente cercano questa sorta di situazioni win-win-win-win-win. Non importa se si tratta di negoziazione di azioni o di un’opzione su un bene immobiliare, un affare di solito coinvolge solo due parti e generalmente risulta in una vittoria di uno sull’altro (tanto che un esito win-win è considerato un’anomalia eccezionale). “L’uomo è il più feroce degli animali”, disse Trump a People nel 1981 (e si meritò una menzione la prima volta che apparve su Forbes, un anno più tardi). “La vita è un susseguirsi  di battaglie che si concludono con una vittoria o con una sconfitta”. È una mentalità che rimane innata nel presidente Trump.

Quasi un anno dopo il più sorprendente Election Day degli ultimi decenni, i critici si dicono ancora ininterrottamente scioccati dal presidente Trump. Non dovrebbero esserlo: la sua visione del mondo è sempre stata molto coerente. Piuttosto che considerarla un’occasione di rendere atti politici le sue idee, guarda il governare allo stesso modo in cui controlla il suo business: un’infinità di affari da concludere, con una vittoria o una sconfitta, al tavolo dei negoziati o nell’arena dell’opinione pubblica. Basta guardare al suo primo anno da questa prospettiva e tutto si spiega. E offre delle indicazioni per i prossimi tre – o sette – anni.

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Chiedi al presidente Trump se si diverte nel suo nuovo lavoro e ti darà una risposta immediata: “Mi diverto. Mi piace. Facciamo tanti progressi. Il mercato azionario è ai massimi storici. Quanto ai posti di lavoro, la disoccupazione è al punto più basso in quasi 17 anni. Stanno uscendo dei numeri favolosi”. L’espressione “numeri favolosi” non coincide con l’idea comune di divertimento. Ma per Trump è sempre stato così. “Certi dipingono splendidi quadri su tela, altri scrivono delle poesie meravigliose”, scrisse ne L’arte di fare affari 30 anni fa. “A me piace fare affari, preferibilmente grandi affari. È così che mi diverto”.

I numeri offrono a Trump una conferma della validità del suo operato. Loro decidono chi vince e chi perde in un affare e creano una gerarchia in un settore. Questo spiega perché Trump più di chiunque altra delle 1.600 persone che sono state nella classifica Forbes 400 abbia passato tempo a cercare di persuadere Forbes al fine di ottenere una valutazione più alta – e dunque una conferma. Nello Studio Ovale, quando gli dico che i mercati finanziari sono saliti del 20% da quando è presidente, lui estende il periodo di osservazione per restituire una cifra ancora più luccicante. “No, 25% dalle elezioni. Deve calcolare dal giorno delle elezioni”.

Certo, dipende dall’indice utilizzato (fa i calcoli utilizzando quello più Trump-friendly, il Nasdaq), ma il presidente non ammette alcuna sottigliezza. “Dal giorno delle elezioni è 25%. Il valore è salito di ben 5.200 miliardi di dollari da quel giorno. Se avesse vinto Hillary Clinton i mercati sarebbero scesi di molto”.
Trump è altrettanto fiero del Pil. “Allora, il Pil nell’ultimo trimestre è cresciuto del 3,1%. La maggior parte dei suoi colleghi, e anche altre persone, dicevano che non si sarebbe raggiunta quella percentuale per molto tempo ancora. Sa, Obama non ha mai raggiunto quella cifra”.

Quando gli si dice che il suo predecessore l’ha fatto eccome, e diverse volte, Trump scatta  immediatamente. “Lui non l’ha mai raggiunto su base annuale. Mai su base annuale. E questo in otto anni di tempo. Io penso che andremo sostanzialmente molto più in alto di così. E penso che questo trimestre sarebbe stato fenomenale, se non fosse stato per gli uragani”.

E a proposito degli uragani? “Beh, ho ottenuto molta stima per la gestione degli uragani”, dice, due giorni prima del tweet in cui si lamentava di non stare ottenendo sufficiente riconoscimento personale. L’assai criticata attività Twitter presidenziale gli offre un metodo moderno per auto-validarsi. Qualsiasi cosa dica registra migliaia di like, migliaia di retweet e nel tempo milioni di nuovi follower. Che importa se alcuni di quegli account sono dei fake? I grandi numeri hanno sempre attratto Trump, indipendentemente dalla loro precisione. Ha numerato i piani della Trump Tower per far sembrare più alta la costruzione, era ossessionato dalle cifre dell’audience di The Apprentice e ha mentito sulla metratura della sua penthouse. Tutto questo spiega l’inspiegabile: la necessità di ingrossare i numeri delle folle o di prendersela con chi comunica i dati dei sondaggi a lui sfavorevoli.

Per Trump i numeri servono anche come uno strumento flessibile. Le aziende americane hanno pienamente abbracciato i Big Data e il machine learning, dove i numeri suggeriscono le migliori azioni da intraprendere. Ma Trump, per decenni, si è vantato di fare le ricerche per conto suo – per la maggior parte riferite ad aneddoti – e di come poi compra o vende basandosi sull’istinto. I numeri, poi, sono adoperati per giustificare le sue sensazioni di pancia. Governa esattamente così, attenendosi alle sue promesse elettorali, anche alle più illogiche – quelle che gli altri politici di norma ritirano una volta di fronte alle decisioni operative, siano esse la decisione di far pagare al Messico unmuro alla frontiera quando l’immigrazione illegale è a un minimo storico, o la decisione di ritirare gli Stati Uniti dagli accordi sul clima di Parigi, malgrado il fatto che l’adesione sia volontaria – citando qualsiasi numero che possa giustificare le sue azioni. Quando gli chiedi qualcosa sull’interferenza russa nelle elezioni, per esempio, fa notare che ha avuto 306 voti elettorali e aggiunge che i democratici hanno bisogno di “una scusa per aver perso un’elezione che in teoria avrebbero dovuto vincere”. Per il più grande venditore americano di sempre (sì, comprendendo P.T. Barnum), le statistiche servono per portare acqua al proprio mulino.

Trump usa i numeri a proprio vantaggio, rendendoli il parametro attraverso cui stabilisce una vittoria o una sconfitta. Nel 1984, quando comprò la squadra di football dei New Jersey Generals, descrisse la propria strategia di negoziazione in questo modo: “Quando devo costruire qualcosa per qualcuno, alzo sempre il preventivo di 50 o 60 milioni. Se i miei ragazzi entrano in ufficio e mi dicono ‘ci costerà 75 milioni’, io invece dico che ne costerà 125, e alla fine lo costruisco per 100. Gioco sporco, in pratica. È la tattica migliore”.

Trump applica la stessa strategia alle sue riforme politiche, come quella che mira al taglio delle imposte per le imprese. Per mesi il leader americano aveva affermato di voler ridurre le tasse al 15% delle aliquote attuali. Oggi, però, ha ridotto l’obiettivo al 20%. “Dicevo 15 con lo scopo di arrivare a 20”, mi spiega, e aggiunge: “Come sai, nelle prossime settimane bisognerà discuterne. Ma io dicevo il 15 per puntare al 20”.

Trump apprezza simili tattiche anche nei presidenti del passato. Negli anni ‘80, ricorda, Jimmy Carter gli chiese di costruire la biblioteca presidenziale affidandogli un budget da 5 milioni di dollari. “Carter aveva le palle di chiedere cose straordinarie”, ha scritto nel libro L’arte di fare affari. “Quella capacità, più di ogni altra cosa, lo aiutò ad essere eletto presidente”.

Trump è anche capace di cercare alleanze, quando gli conviene, e di fare leva sulle proposte di presunti competitor per rinforzare le possibilità vittoria della sua. Solo così si spiega il suo inaspettato sostegno per Nancy Pelosi e Chuck Schumer, e delle loro proposte di riformare il limite del debito, le proposte per l’immigrazione sui Dreamers o l’assistenza sanitaria.

Ovviamente, chi non è pienamente d’accordo deve fare i conti con le sue frustrate — sferrate via Twitter: basti chiedere a Ryan (“Non fa niente!”), McConnell (“Tornatene al lavoro”), Schumer (“Chuck il piangina”), Lindsay Graham (“Stupido portaborse”), Elizabeth Warren (“Molto razzista!”), John McCain (“Pirla!”) e i circa mille altri che nel corso dell’ultimo anno hanno osato di opporsi al presidente. Sebbene molti di questi insulti sembrano essere stati covati in profondità, non è altro che un’altra tattica mutuata dagli affari, e che Trump ha usato a lungo. Come dice ne L’arte di fare affari, “sono il primo ad ammettere di essere iper-competitivo e che farei qualsiasi cosa per vincere, entro i limiti della legalità. A volte denigrare i tuoi concorrenti fa parte delle tattiche necessarie per raggiungere un accordo”.

Trump arriva persino a denigrare le persone che fanno parte della sua stessa squadra. Trump vuole essere il maschio alfa in ogni situazione. Non è molto bravo a delegare. Penso a quello che è successo quando il segretario di Stato, Rex Tillerson, ha cercato di riaprire il dialogo con la Corea del Nord. “Stava perdendo il suo tempo”, dice oggi Trump. Sgridare pubblicamente il suo uomo numero uno per quanto riguarda la diplomazia internazionale sembrerebbe una mossa sbagliata, giusto? Non per il presidente americano, tutt’altro. “Così facendo non indebolisco nessuno”, spiega. “Anzi, sto rafforzandone l’autorità”. Ma è difficile capire l’autorità di chi Trump stia rafforzando, oltre alla sua.

Nessuno sfugge al mirino di Trump, nemmeno i suoi familiari. Dieci anni fa, Donald Trump Jr. raccontò a Forbes questa storia su suo padre: “Andavo al lavoro con lui già quando avevo 5 o 6 anni. Oltre a dirmi continuamente di non bere, non fumare e non andare a inseguire le donne, mi ripeteva anche: «Non fidarti di nessuno». Poi mi chiedeva se io mi fidassi di qualcuno. E io rispondevo: «No». «Ti fidi di me?», mi chiedeva poi. E io rispondevo «Sì». Al che lui ribatteva: «No! Non fidarti neanche di me!»”.

Grazie a The Apprentice, la maggior parte delle persone pensa che Donald Trump fosse a capo di una grande compagnia. Falso. La Trump Organization possiede 22 asset immobiliari, ognuno dei quali ha il suo gruppo di manager. Trump concede in licenza al suo brand a più di una dozzina di realtà, guadagnando sulle royalty. Tutto sommato, si tratta di una compagnia di valore che impressiona più per il suo rendimento che per la sua mole. Trump ha usato abilmente questa mentalità, e le sue formidabili abilità di promotore e showman, per impostare una delle campagne politiche più efficienti della storia. “Nessuno ne parla, ma ho spento molto meno degli avversari e ho vinto”, dice”. Ha ragione.

Ma essere a capo della Trump Organization ha ben poco di paragonabile a trovarsi in mano le redini della somma organizzazione americana: il governo statunitense. Alla Trump Organization, praticamente tutto è suo. Non esiste alcun consiglio di amministrazione conosciuto, alcun azionista di minoranza e alcuna base di clientela, fatti salvi quelli che possono permettersi acquisti di immobili di lusso e i membri dei golf club. Somiglia molto di più a gestire un family office che Wal-Mart. Se si parla di magnati diventati aspiranti presidenti, accostatelo agli altri due leader del settore privato che erano andati vicini a sedere nello Studio Ovale: Wendell Willkie, a capo di un’enorme azienda di pubblica utilità prima di doversi arrendere a FDR nel 1940, e Ross Perot, la cui visionaria candidatura da indipendente del 1992 si fondava su una carriera costruita su due grandi compagnie pubbliche, tra cui la nota Electronic Data Systems, una multinazionale che aveva la sua politica estera de facto, comprendente anche un celebre salvataggio di ostaggi iraniani.

Trump ha esperienza alla guida di aziende pubbliche, ma anche allora c’era un solo azionista che contava. Quando Trump controllava il 40% della società quotata in borsa Trump Hotels & Casino, l’ha usato per comprare un casino di cui era il privato proprietario per 500 milioni di dollari, anche se un analista sosteneva valesse il 20% in meno. A un certo punto, aveva in mano anche più del 10% di Resorts International. Con quella compagnia ha stretto un accordo che gli ha fatto guadagnare milioni in imposte alle spese degli altri proprietari. Nessuna delle due cose è finita bene: la Trump Hotels ha portato i libri in tribunale (per la prima volta) nel 2004; la Resorts era andata in bancarotta qualche anno prima, dopo che Trump aveva incassato.

Ereditare le chiavi del governo americano è simile a un passaggio di consegne alla General Electric o a Microsoft. La continuità è generalmente data per scontata: onorare gli impegni presi in seguito e gestire l’azienda/il paese nel modo migliore possibile, mentre si volge lo sguardo verso nuove priorità e policy.

La mentalità commerciale di Trump, ad ogni modo,non la vede in questo modo (né la vedono così i suoi sostenitori, che si aspettano soprattutto cambiamenti radicali). Se le scelte politiche precedenti sono accordi sbagliati, non c’è motivo di onorarle, anche se a rimetterci è la reputazione americana, o la percezione di una politica nazionale stabile. Prendete Obamacare. “È un pasticcio totale”, dice Trump. Buon punto. Ma Trump, da ceo degli Stati Uniti d’America, non ha l’obbligo di mettere in pratica la legge nel modo migliore possibile finché non trova un’alternativa, invece di minacciare di rifiutare i pagamenti alle compagnie assicurative, limitare il periodo di iscrizione e tagliare i budget pubblicitari?

“Quel che stiamo facendo è provare a tenerla a galla, dato che sta fallendo”, dichiara. “Intendo dire che le assicurazioni stanno scappando, o sono già scappate. Scappavano prima che io arrivassi qui. Ma detto questo, no, Obamacare è colpa di Obama. E di nessun altro”.

Ma ora non è responsabilità della sua amministrazione? “Sì, ma ho sempre detto che Obamacare è colpa di Obama. Non sarà mai colpa nostra”. È lo stesso approccio che risalta in politica estera, ogni volta, che si parli dell’accordo con l’Iran, la conferenza sul clima di Parigi o, soprattutto, gli accordi di libero scambio. Non sente la responsabilità di rispettare le intese raggiunte dalle amministrazioni precedenti?

Il presidente Trump offre una replica veloce: “No”.

È un precedente pericoloso: un’America in cui ogni amministrazione, invece di costruire a partire dagli accordi di chi l’ha preceduta, annulla le riforme dell’altra, indebolendo significativamente l’autorità del capo dello Stato. Trump fa di nuovo spallucce.

“Io penso che il Nafta andrà terminato se riusciremo a farlo in modo appropriato. Altrimenti, credo che non si possa negoziare un buon accordo… [Il partenariato trans-pacifico, o TPP] sarebbe stato una versione in scala più ampia del Nafta. Sarebbe stato un disastro. È un grande onore averlo interrotto, lo considero una grande conquista. E in molti sono d’accordo con me. Mi piacciono gli accordi bilaterali”. Certo che gli piacciono: Trump mette a segno accordi bilaterali da una vita. Ma gli accordi bilaterali sono soltanto questo: trattative a due che recano la prospettiva implicita di un negoziato che creerà un vincitore e un perdente. Non contrasta completamente col mondo multipolare in cui viviamo?

“Fare così permette di concludere molti più affari. E se non funziona con un paese, gli dai un ultimatum di 30 giorni e poi scegli se ridiscutere”. Il mondo bilaterale di Trump spiega, ovviamente, perché gli aiuti internazionali sono stati tagliati. Ha un enorme lato negativo: gli accordi fanno segnare punti, ma non creano investimenti di lungo periodo. È impossibile pensare che dalla Casa Bianca di Trump esca qualcosa di paragonabile al piano Marshall, che ha inaugurato più di sei decadi di pace e prosperità. A questa osservazione, si limita ad alzare le spalle di nuovo.

“Per me viene prima l’America. È stato così talmente a lungo che abbiamo debiti per 20 mila miliardi di dollari, ok?”. Trump vuole governare il paese come un’altra Trump Organization. Molto è stato detto riguardo alla lentezza con cui ha nominato le persone nei ruoli chiave della sua amministrazione. Al dipartimento di Stato, ad esempio, non è riuscito a fare nomi per metà delle posizioni che doveva scegliere. A quanto pare non è stato un caso.

“In linea generale non voglio fare tutte le nomine che si farebbero normalmente, perché non ce n’è bisogno”, dice. “Voglio dire, guarda ad alcune di queste agenzie, alle loro dimensioni massicce. È totalmente inutile. Hanno centinaia di migliaia di persone”. E come si sente quest’uomo, che non ha mai avuto un capo, nella nuova condizione di averne 330 milioni, per l’esattezza? Ammette la situazione, ma poi risponde con una frase perfettamente, coerentemente trumpiana: “Non importa, perché farò la cosa giusta”.

Articolo tratto dall’edizione internazionale di Forbes del 14 novembre 2017.

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