Supportare talenti della content creation attraverso un lavoro “dalla A alla Z”, con un lavoro di strategia, produzione e gestione. Show Reel nasce con l’obiettivo di supportare talenti emergenti nel campo della content creation e influencer marketing. Iniziando dal mondo di YouTube nei primi anni 2010, Show Reel ha collaborato con i principali YouTuber italiani, come Willwoosh e Daniele Doesn’t Matter, contribuendo a definire il panorama del branded content in Italia.
A guidare Show Reel Factory, la parte dell’attuale Show Reel Media Group dedicata al talent management, è Helio Di Nardo. L’agenzia opera in un settore che sta vivendo un momento particolare. “Quello che dico sempre a tutto il team, è che noi dobbiamo essere sempre pronti a rinnovarci: il cambiamento è parte integrante del nostro Dna”, dice Di Nardo. L’obiettivo? “Arrivare a delle regole chiare e univoche per tutti”.
Come nasce e quando Show Reel Factory?
Come Show Reel, abbiamo iniziato con i primi esempi di quello che era il mondo della content creation del tempo, ovviamente solamente dedicato al mondo di YouTube. Poi dal 2010-2011 abbiamo iniziato a gestire primi grandi youtuber italiani: Willwoosh, Canesecco, Daniele Doesn’t Matter. Da lì è partito il percorso all’interno di questo mercato. Nel corso degli anni siamo cambiati tantissime volte e nel 2019 abbiamo deciso di costituire una holding, Show Reel Media Group, e di dividerci in due macroagenzie: Show Reel Factory, la società del gruppo dedicata al talent management e Show Reel Agency che invece sviluppa strategie in primis per aziende e brand diretti, ma che lavora anche a supporto di agenzie creative e centri media.
Che momento è per il business legato ai talent?
Un momento molto particolare. Quello che dico sempre a tutto il team, è che noi dobbiamo essere sempre pronti a rinnovarci e che il cambiamento è parte integrante del nostro Dna. Di solito i tempi del cambiamento sono molto veloci, ma non così veloci. Dalla fine del 2023 ci sono state note vicende che hanno avuto un forte impatto soprattutto sulla percezione del ruolo del creator e dell’influencer. Le cause? La stampa e il fatto di non avere degli esempi sempre virtuosi in questo settore.
Come viene visto il creator oggi?
Oggi si considera l’influencer come uno scammer, una figura che non fa nulla dalla mattina alla sera. Spiace vedere questa la figura del creator bistrattata, ormai facilmente attaccabile e criticabile. Ci sono esempi virtuosi di persone che ne hanno fatto una professione seria e riescono a muovere tantissime persone non solo dietro gli schermi, ma portandole a vedere uno spettacolo in teatro, ad acquistare un album o a vedere una trasmissione televisiva. Sarebbe bello riuscire ad arrivare ad avere regole chiare: chi non le rispetta viene punito. Noi le regole le abbiamo sempre rispettate, e quando non c’erano ce le siamo autogenerate. Abbiamo cercato di fare un po’ da cartello anche con le altre agenzie di management, almeno quelle storiche, di cooperare per avere un contesto che potesse essere il più univoco possibile.
Come fare per far cambiare questa percezione della figura del creator?
Abbiamo iniziato, oramai cinque anni fa, un percorso di professionalizzazione di questi ragazzi. Vogliamo dar loro strumenti non solo economici e strategici ma anche tecnici: dare loro competenze di progettualità, fiscalità e regole per far dire loro “questo è il mio mestiere”. Dopo le note vicende di cui parlavo prima, tutto questo mondo si sta adoperando per dare una stretta normativa al settore. È una cosa che auspichiamo da anni e che speriamo che veda una conclusione il prima possibile. A livello legislativo siamo ancora indietro, quindi si stanno muovendo i primi passi. Noi di Show Reel stiamo collaborando anche con Agcom: è un lavoro che ci permette di confrontarci con tutti i player del mercato.
Ora molti brand investono di più sui piccoli creator. È una cosa che dal tuo punto di vista hai potuto verificare?
È una cosa che non solo abbiamo verificato, ma che abbiamo anche incentivato. Infatti, non è solo importante avere 10, 100 o 1 milione di follower. Serve essere estremamente verticali anche su determinati argomenti. Ed è anche una ragione per cui tantissime nicchie – che poi nicchie non sono – riescono ad avere ottimi risultati. Questo aspetto, poi, non va a sfavore di chi ha tanti numeri, perché solitamente i creator che hanno grandi numeri sono legati a mondi più trasversali.
Questi creator, che sono un po’ creator digitali e un po’ vip, non è che stanno venendo snobbati. È diverso il modo in cui i brand si approcciano: non si deve investire solo per moda. Bisogna far tornare i conti così da rendere l’accordo più virtuoso per tutti. Spesso i conti non tornano perché i reparti marketing delle varie aziende si infatuano di una serie di profili che magari non sono adatti a comunicare il proprio valore o il proprio prodotto. Ci capita un sacco di volte di trovare brand e agenzie che scelgono un creator per il suo ‘tono di voce’ dicendo: “Questo creator lo scelgo perché parla in maniera divertentissima e un po’ sguaiata”. Poi, quando ci iniziamo a lavorarci, le stesse aziende vorrebbero totalmente smaturarlo quel ‘tono di voce’. Allora ci si chiede: “Ma perché l’avete scelto?”.
Come selezionate e scegliete i talent da inserire nel roster?
Vorrei poter dirti secondo una strategia millimetrica pensata e costruita. Ma la verità è che noi siamo i primi a innamorarci di certi profili. Tanti dei nostri top creator, sono creator partiti senza avere la visibilità che hanno oggi e sono cresciuti negli anni. Quei percorsi sono quelli più sani, che poi nel tempo producono un effetto virtuoso sia sulla loro carriera sia sul business. Cerchiamo sempre di non eccedere nel numero di talent da gestire perché preferiamo fare un lavoro più qualitativo, che eviti le sovrapposizioni.
Vi occupate anche di crisis management. Come operate in questo settore e quanto è difficile ottenere risultare in questo campo che sembra un po’ un campo minato?
Fare la comunicazione di crisi è una sfida spesso molto divertente e gratificante, se non fosse che stai comunque giocando non solo con un professionista ma con un essere umano, o con degli esseri umani. Il rovescio della medaglia, per noi, è che con questi professionisti abbiamo anche una relazione di fiducia, di trasparenza e di condivisione di valori. Quando arriva una comunicazione di crisi – e quindi si presenta una problematica per un creator – questa situazione ha su di noi un risvolto pesante in termini personali. Dall’altra parte la comunicazione di crisi secondo me vive di esperienza. Noi abbiamo la fortuna di essere quelli che di esperienza ne hanno più di tutti, perché ne abbiamo viste succedere tantissime, ma per fortuna poche a noi. Oggi fare crisis management significa trovare il giusto equilibrio tra la tutela dell’essere umano e le responsabilità di eventuali sbagli. La comunicazione di crisi parte dalla presa di coscienza dell’errore. Poi dev’essere pensata per raccontare sia l’errore, sia il processo che ne avviene dopo.
Cioè?
Dopo il caso Ferragni c’è stato un susseguirsi di cose che sono sempre accadute e che prima avevano ovviamente un’attenzione e una rilevanza mediatica molto inferiore. Certe vicende prima rimanevano nel nostro orticello mentre ora partono come schegge impazzite. Il motivo? I media generalisti si sono interessati di questa cosa e cavalcano da sempre questi fenomeni. Ecco, ogni tanto bisognerebbe farsi qualche scrupolo in più sia per chi ‘cerca di difendere l’indifendibile’, ma anche per chi ‘attacca l’inattaccabile’. Parliamo di persone che comunque hanno fatto di quella cosa la loro vita. A noi è capitato di avere delle comunicazioni di crisi non solo su dei problemi lavorativi: abbiamo affrontato vicende penali importantissime. In quelle situazioni uno spera di avere un trattamento, diciamo, più o meno comprensivo.
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