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“La rivoluzione sociale si deve fare nei teatri”

Davide Livermore è regista, scenografo, sceneggiatore, cantante lirico e in ultimo scrittore. Sua la firma della regia alla Prima della Scala di quest’anno. (Francesco Maria Colombo)

Articolo apparso sul numero di dicembre 2018 di Forbes Italia.

È senza dubbio uno degli appuntamenti più importanti dell’anno per la cultura – e la mondanità – all’ombra della Madonnina. E quest’anno la Prima della Scala, l’opera inaugurale della stagione del più prestigioso teatro milanese, diretta da Riccardo Chailly, sarà Attila di Giuseppe Verdi. La regia è firmata da Davide Livermore: regista, scenografo, sceneggiatore, cantante lirico e in ultimo scrittore (è uscito a ottobre il suo primo libro 1791 – Mozart e il Violino di Lucifero”, scritto a quattro mani con Rosa Mogliasso ed edito da Salani). Acclamatissimo all’estero, in primis per il lavoro come sovrintendente e direttore artistico del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, uno dei maggiori teatri d’opera a livello mondiale, nonché per progetti originali come The Opera, uno show che reinterpreta alcune celebri arie liriche, ha collaborato con i più importanti teatri italiani, dal Regio di Torino – la sua città – al Teatro La Fenice di Venezia, fino appunto alla Scala, per cui ha curato la regia del Tamerlano e del Don Pasquale.

Alle luci dei riflettori, però, Davide Livermore sembra preferire l’ombra di chi vuol fare la rivoluzione con l’arte. Al CineTeatro Baretti di Torino, dove è direttore artistico dal 2002, ha messo in moto la riqualificazione culturale (e sociale) del quartiere di San Salvario. L’ha fatto creando, senza budget e senza percepire uno stipendio, una scuola popolare di musica frequentata da cinquecento bambini e una stagione teatrale di altissimo livello. “Il Teatro Baretti è il luogo della mia militanza politico-culturale”, dice. “Negli ultimi anni ho lottato per affermare il concetto che la cultura cambia la qualità della vita delle persone. Non la cambia il prosciutto crudo o il brand di moda, bensì l’aggregazione: è stare insieme pensando che il luogo in cui viviamo offra opportunità di bellezza”. Sa di provocare, Livermore, e di pensare fuori dal coro, specialmente in un contesto immobilista come quello italiano.

Allievo di Carlo Majer, direttore artistico del Regio di Torino dal ’91 al ’98, – “è la persona più straordinaria che abbia conosciuto”, dice, “da lui ho imparato il valore etico di essere un artista per l’arte e la società: mi ha insegnato che per la bellezza si può anche morire, perché è come il mare, la luce, il vento. È di tutti” -, al Palau de les Arts Reina Sofia ha allestito un camion portando l’opera lirica in giro per le province di Valencia: “Ho visto paesini di 300 anime riempirsi di migliaia di persone”. Poi ha invitato settecento tassisti alla prova generale di uno spettacolo perché tanti di loro non sapevano dove fosse il teatro, mentre “ora lo conoscono molto bene!”. Si chiede come mai queste cose non si riescano a fare in Italia. Mentre parla, a emergere è il suo toccante idealismo, il suo spirito da attivista dell’arte, che crede nell’opera lirica come strumento di coesione sociale, come agorà.

“Servirò Giuseppe Verdi e il 7 dicembre sarà la celebrazione del nostro paese. Non ho scelto questo mestiere per dare forma alle mie nevrosi, ma per mettere in scena un grande artista”.

“È il regalo più grande che abbia fatto l’Italia all’umanità”, dice. Peccato che gli italiani non se ne rendano conto. “Le spiego il perché: negli ultimi trent’anni è stata impressa l’idea che l’opera sia entertainment. L’opera lirica non è entertainment, è arte. All’estero, nessuno dice “mi piace o non mi piace l’opera”: la si ama semplicemente alla follia perché esprime un’irripetibile simultaneità delle arti. Aver trasformato l’opera lirica in un ‘vado a mangiare la pizza o vado all’opera?’ rappresenta un vergognoso livellamento verso il basso”.

Su chi abbia permesso quest’involuzione culturale, Livermore non ha dubbi: “Quando i teatri d’opera, non tutti ma la maggior parte, vengono gestiti come emanazione del potere politico, è chiaro che venga meno la qualità del prodotto culturale”. A infiammarlo sono anche le polemiche sui prezzi dei biglietti degli spettacoli: “Sa quante persone ci vogliono per realizzare un’opera? Il problema è che la nostra società non ci educa a come usare i soldi. Cento euro per andare al ristorante li spendiamo volentieri. Per dare cibo alla nostra anima, però, non vogliamo farlo. Perché penso che la rivoluzione sociale si debba fare nei teatri? Perché è qui che le persone diventano coscienti del proprio ruolo all’interno della società. L’opera è un’educazione agli affetti, all’anima. Chi accetta di farsi educare dall’arte non può essere preso in giro facilmente. Per questo la politica se ne tiene lontana”.

Lui che considera Giuseppe Verdi il proprio padre spirituale “dovrebbe esserlo di tutti” – della regia che porterà alla Scala dice: “Voglio raccontare l’Attila di Giuseppe Verdi, che non è il cattivaccio delle leggende, ma un uomo capace di impartire grandi lezioni morali. Verdi usava lo straniero per insegnare qualcosa a noi italiani. Nell’Attila faceva una radiografia spietata della politica del tempo, denunciando il mercanteggio politico. È incredibile quanto sia attuale ancora oggi”. Altre anticipazioni non ne può dare. Ma un’ultima cosa la vuole dire: “Servirò Giuseppe Verdi e il 7 dicembre sarà la celebrazione del nostro paese. Non ho scelto questo mestiere per dare forma alle mie nevrosi, ma per mettere in scena un grande artista. Del resto, non mi considero certo un genio: sono un semplice artigiano”.

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