di Tommaso Carboni
Se sull’economia italiana vi viene voglia di fare i masochisti allora la pratica davvero soddisfacente è confrontarla con quella irlandese. Per macerarsi di gusto basta qualche numero. Nel 1993 l’Italia aveva un Pil pro capite di più di 23mila dollari (dati World Bank), l’Irlanda meno di 15mila. Passano ventiquattro anni e la capovolta ha del tragicomico. La ricchezza pro capite degli irlandesi è più del doppio di quella italiana (circa 69mila dollari contro 32mila). Un exploit micidiale che ha sorpreso tutti. Per l’Economist l’Irlanda del 1988 correva verso la catastrofe, qualche anno dopo, in barba a ogni pronostico, era diventata “la Tigre Celtica”. Come diavolo è successo? E’ certamente un vantaggio essere un popolo giovane, ben istruito (a differenza di quello italiano) e di madre lingua inglese. Poi, anche a costo di banalizzare una storia di successo, è innegabile che la mossa vincente è stata attrarre investimenti delle multinazionali attraverso tasse molto vantaggiose. Le imposte sulle società in Irlanda, al 12,5%, sono le seconde più basse in Europa, dove la media è del 22,5 per cento. Decine di multinazionali, tra cui Microsoft, Google, Merck e Pfizer, hanno scelto Dublino come base per le loro attività europee. La città di Oscar Wilde si è riempita di lavori nel tech, nel farmaceutico e nel digitale. Ma ha fatto anche emergere in Europa l’enorme inadeguatezza delle regole internazionali sulla tassazione societaria. Queste norme risalgono agli anni Venti e legano le imposte sui profitti alla presenza fisica di una società su un determinato territorio. Un principio che funziona veramente male in un mondo iperglobalizzato. Il gioco è semplice: Google, con sede in California, attraverso una sua filiale a Dublino vende annunci pubblicitari in tutta Europa. Paga le tasse (poche) in Irlanda, ma la maggior parte dei profitti li fa in altri paesi, che non raccolgono nemmeno le briciole. Quando nel 2010 una bolla immobiliare travolse le banche irlandesi, la Troika intervenne con un bailout da 64 miliardi di euro. I creditori cercarono, tra le altre cose, di imporre a Dublino un ritocco verso l’alto della sua “corporate tax”, perché fosse più in linea col resto del Continente. Utile quanto prendere a capocciate un muro: l’Irlanda ha ripagato il suo debito in anticipo e le tasse societarie sono rimaste uguali. Alcuni paesi europei a questo punto cominciano a fare da soli: la Francia per esempio ha approvato a luglio una “digital tax” del 3% sui ricavi delle grandi multinazionali del web, cosa che dovrebbe entrare in vigore anche in Italia il prossimo anno. Ma c’è un rischio: azioni di questo tipo, unilaterali, possono indebolire un’economia globale già fragile per la guerra dei dazi. Di fronte alla web tax francese, vista come un piano preciso per danneggiare Google, Amazon, Apple e Facebook (e quindi l’America), uno come Trump non poteva che promettere rappresaglie. Molto meglio sarebbe quindi un approccio condiviso su scala globale. Ci sta provando seriamente l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il cui piano per una radicale riorganizzazione delle regole internazionali sulle imposte societarie ha ricevuto venerdì scorso l’appoggio del G20. Verrebbe meno un tabù secolare per cui gli Stati hanno diritto di tassare solo le attività di società presenti fisicamente sul loro territorio. L’idea dell’Ocse, emersa dopo mesi di contrattazioni dietro le quinte, è quella di permettere ai paesi di tassare invece una parte degli utili globali delle grandi multinazionali, una parte calcolata in proporzione alle vendite che queste realizzano nei loro mercati. Questo effettivamente vanificherebbe ogni sotterfugio legale per sfuggire alle imposte. Facciamo un esempio: la Francia potrebbe tassare un po’ delle vendite di Google agli inserzionisti francesi, mentre gli Stati Uniti avrebbero maggiori diritti fiscali sugli utili che la conglomerata del lusso LVMH ottiene dalle vendite in America. Ci guadagnerebbero anche le economie emergenti e i paesi in via di sviluppo. Le multinazionali vendono ampiamente da decenni nei loro mercati, e per la prima vola questi paesi potrebbero raccogliere qualche tassa. A perderci, probabilmente, saranno le multinazionali e i paradisi fiscali, ma pure quei paesi che offrono tassazioni molto agevolate, come appunto l’Irlanda. Che rischia di veder evaporare entrate fiscali per un miliardo di euro l’anno. Per ora comunque questo è soltanto un rischio. Perché l’Ocse prevede una durissima contesa internazionale sugli esatti parametri delle nuove regole. Insomma, all’orizzonte c’è un accordo, ma i dettagli sono ancora immersi nella nebbia.
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