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Come Netflix ha messo il marketing sottosopra

Il poster promozionale di Stranger Things 2.

Come nasce una serie tv di successo? Ai canadesi Stranger Things piace a più di chiunque altro. Lo ha riferito Todd Yellin, head of product, a Fast Company spiegando come la piattaforma streaming vuole conquistare il mercato globale. Pare che da quelle parti consumino le nove puntate in binge-watching più velocemente che in qualsiasi altra nazione, e questo fa di loro i profili-guida su cui tarare gli studi di marketing. Subito dopo ci sono i tedeschi e noi italiani. Per rendere tutto questo possibile Netflix non si affida al caso: tutto è misurato e profilato: un grande fratello che studia il modo in cui vediamo le serie tv. Questi dati servono a creare prodotti come la serie che filtra l’immaginario degli anni ’80, Stranger Things, in grado di essere venduti sulla piattaforma agli oltre 110 milioni di abbonati sparsi in tutto il mondo fuorché in Cina, Crimea, Corea del Nord e Siria.

Netflix pensa globale ma agisce locale. A Netflix pensano in termini di taste communities, cioè di comunità di gusto, ovvero profili di utenti suddivisi in cluster a cui suggerire prodotti “se ti piace X amerai Y”, una cosa introdotta sul mercato (con successo) da Amazon coi suoi algoritmi e che ha preso piede sia nel mercato musicale (Spotify) che in quello audiovisivo. Tu, milanese, puoi essere nello stesso cluster di un marocchino e di uno spettatore al Polo nord. Il marketing segue quindi delle personalizzazioni nazionali ma anche dedicate al tipo di profilo a cui appartieni. Un esempio: si producono i contenuti scaricabili (foto, video, extra) in base a tipi di persone: se ti piace più il thriller puntano sul personaggio di Elle, per gli amanti della commedia andranno bene due ragazzini della gang che guardano al cielo con la faccia trasognata.

Ci si trasforma in filologi. Stranger Things è distribuito in 20 diverse lingue e si tenta di mantenere la continuità coi doppiatori originali (così che Winona Ryder sia familiare quanto lo era in Beetlejuice o Ragazze Interrotte). Ma anche i sottotitoli devono rispettare un principio di coerenza. La serie è piena di marchi, riferimenti musicali, titoli di film, oggetti, brand e si cerca la traduzione o la traslitterazione originale degli anni ’80 in ogni paese, quando esiste, per poterla mantenere. In passato Netflix ha personalizzato i teaser di altre serie con personaggi come Salvatore Aranzulla per Black Mirror, Sabrina Salerno per Glow, Antonio Capranica per The Crown e Giovanni Muciaccia per Una serie di Sfortunati Eventi. Questo per rafforzare la diffusione online, creare buzz in modo brillante e giocando sui livelli di lettura. Nella tua filter bubble fa tanto ridere.

“Lo sceriffo Hopper ci aveva avvertiti. Il Sottosopra è arrivato anche qui”. Se non siete spettatori della serie questa frase non vuol dire molto, e tocca spiegarla. È la didascalia a una foto di uno dei tanti tramonti del nord Italia di domenica 29 ottobre. A pubblicarla è Netflix sul proprio canale Facebook, e dalla pagina della serie che rincara: “L’avete pensato tutti oggi, dite la verità!». È real marketing: sfrutta l’hype di un evento o un fenomeno buzz per farsi pubblicità. Ed è fatto anche da altri brand nei confronti di una serie considerata di tendenza online. Due esempi su tutti: il Tonno Nostromo che, giocando sul tema del Sottosopra, si propone come salvatore di numerose cene (una scatoletta di tonno ribaltata sul piatto), o la scatoletta di Tic Tac, “Oggi avete due buonissime ragioni per battere i denti”. Facebook sa che sei uno spettatore (ti basta aver messo like a una foto, un riferimento, un link) e te li propone in timeline.

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Sui dati cala il mistero. Recentemente Nielsen ha lanciato un servizio per monitorare gli spettatori degli show Netflix, ma Netflix sostiene che si tratti di numeri “neanche lontanamente vicini alla realtà”. L’unica fonte in grado di fornire dati dettagliati e precisi, dalla composizione demografica al comportamento di visione, è Netflix stessa che però è parsimoniosa (che è come dire che l’auditel dei programmi di Canale 5 se lo misura Mediaset). La trasparenza, questa sconosciuta. Però sull’effetto della promozione qualcosa sappiamo. Secondo i dati ottenuti da Variety da Twitter, i tre giorni dopo il rilascio della seconda stagione di Stranger Things hanno generato più di 3 milioni di tweet sullo show.

La strategia online di Netflix è ancor più sofisticata della serie tv che promuove. Il canale Facebook ha ribaltato il logo per richiamare il Sottosopra, cioè il mondo parallelo dell’ultima serie; ha coinvolto gli attori della serie per dei contenuti extra in cui si avverte che a Milano ci sono avvistamenti di Demogorgoni (mostricciattoli scappati dal Sottosopra) e si richiede una vera e propria call to action per trovarli; su Twitter c’è un hashtag con emoji personalizzata (in gergo #Hashflags), e poi ci sono le proiezioni al cinema di Milano per i giornalisti a cui regalare i gadget, farli sentire speciali (un tempo li si conquistava col buffet). Per capirci: nel 2017 Netflix ha investito più di un miliardo di dollari in marketing e pubblicità.

Stranger Things non è una serie tv: è un caso studio su come usare un prodotto per ampliare il tuo pubblico: è sia una serie intergenerazionale sia un fenomeno globale. Nel secondo capitolo si ricombina il materiale narrativo del primo, i temi, i personaggi giocando sull’accumulo di citazioni continue, che servono da arredo temporale (uh, i video giochi di quando ero piccolo) e per rivangare nell’effetto nostalgico. Là dove un tempo, da giovani, sognavamo d’essere i protagonisti della storia, oggi vediamo un prodotto perfetto per essere venduto a una generazione che non smette di struggersi e tornare bambini. E consente a Netflix di crescere.

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