Tra l’emergenza coronavirus che sta scavalcando in gravità la Sars, il presidente degli Stati Uniti che le ha dichiarato una nuova Guerra fredda e una crescita del Pil che nel 2019 è stata meno brillante del previsto (anche se invidiabile per l’Occidente) non è proprio un momento felice, quello che sta attraversando la Cina.
Eppure, con la società americana sempre più popolarizzata sulle questioni politiche, le élite occidentali sempre più delegittimate, alcune istituzioni sovranazionali come il Wto, la Nato e l’Ue sempre più in crisi di consenso e di idee, il gigante asiatico resta ancora in pole position come l’architetto di quelle che saranno le strutture di potere del XXI secolo.
Le alternative cinesi alle norme consolidate euroamericane sono spesso opache e contestate dai mass media. Nonostante questo, potrebbero nel corso di questo secolo trascinare il resto delle superpotenze e Paesi limitrofi in un riassetto complessivo del globo. A cominciare dalla Belt Road Initiative (Bri), la cosiddetta “Nuova Via della seta”, che si sta sviluppando parallelamente agli sforzi di Pechino per cooptare la Banca mondiale e altre istituzioni nei suoi giochi diplomatici (ad esempio contro Taiwan o le minoranze etniche interne)
La presidenza Trump, certo, è spiazzante sotto molti punti di vista. Non ultimo il suo volersi ritirare progressivamente dai teatri di guerra più remoti, e in generale dal ruolo di gendarme mondiale che si sobbarca da solo la sicurezza degli alleati. A questo poi si uniscono una apparente mancanza di visione di lungo periodo sui Paesi in via di sviluppo, e la sfrontatezza con cui vengono ignorati gli accordi di Parigi sul clima.
Da qui a immaginare tra vent’anni gli Stati Uniti messi in un angolo, in un mappamondo dominato dalla Cina ce ne vuole.
Le élite di Davos, dopo aver applaudito Greta Thunberg, hanno fatto vincere la partita sostanziale a Trump, dimostrando di apprezzarne le policy-guida: che saranno anche più protezioniste di quelle di Obama, ma in fondo non radicalmente diverse – soprattutto per quanto riguarda gli sgravi fiscali e la deregolamentazione degli scambi – di ciò che sarebbe stata una presidenza (mettiamo) di Jeb Bush o di Mitt Romney. È l’opinione anche di uno studioso attento del populismo, per nulla pregiudizialmente avverso ad esso, come Michael Lind. Fatto sta che in questo contesto di rientro del populismo nell’establishment, il piano del presidente Xi Jinping è dichiaratamente quello di usare la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) per mettere la Cina al centro di comando delle relazioni economiche e geopolitiche mondiali
Sono innumerevoli i Paesi dell’Asia e dell’Africa – come la Cambogia o l’Angola – che dipendono in modo determinante dalla Cina per il loro sviluppo economico, sotto forma di progetti in infrastrutture commerciali e civili, finanziamenti alla ricerca in tecnologia e progetti militari. Più di una dozzina di Paesi europei si sono già dichiarati aperti all’idea di fare affari con la Bri, o per lo meno di arraffarne qualche briciola, anche se uno degli ultimi arrivati ha scosso con particolare vigore le certezze di Washington e Bruxelles: l’Italia, che ha accolto con tutti gli onori, a Roma, il leader del partito comunista cinese lo scorzo marzo.
Il sogno per la terza economia dell’Eurozona e membro del G7 è quello di farsi includere in un progetto di import-export che punta a unire l’Oriente all’Occidente con una miriade di ferrovie, porti e tunnel. Per ora il potenziale dell’operazione resta largamente inesplorato, ma diversi analisti hanno messo sul tavolo il rischio che possa allontanare i paesi più periferici e stagnanti dell’Ue dal nucleo franco-tedesco.
Non è un segreto per nessuno, del resto, che Pechino proverà a usare il suo potere negoziale per influenzare la politica estera e domestica dei Paesi coinvolti. Il fine ultimo della Cina è la “creazione di un ordine mondiale alternativo”, dice Nadège Rolland del National Bureau of Asian Research, in un’intervista ad Axios. E il piano grandioso si sta sviluppando su più livelli, il più evidente dei quali è quello commerciale: con una economia globale molto più dipendente dalla Cina di quanto lo fosse con la Sars di diciassette anni fa, il più piccolo starnuto del primo paese esportatore al mondo fa tremare Wall Street, mentre un’eventuale riduzione della domanda interna cinese si ripercuoterebbe gravemente – e già ci sono segnali in questo senso – sui Paesi Ue tutti rivolti verso l’export, come la Germania e il suo settore automobilistico.
È bastato che i media di Stato cinese – smettessero di trasmettere, seppur temporaneamente, le partite della Nba dopo che il coach degli Houston Rockets aveva scritto un tweet pro-manifestanti di Hong Kong, per far calare le azioni legate al basket e dimostrare il potere ricattatorio di Pechino. Ma questo potere è tanto più forte laddove i suoi effetti sono meno vistosi. Si pensi alla tecnologia 5G, dove la Cina sta facendo fare a Huawei – un’azienda pesantemente sussidiata e agevolata dal governo – la parte del leone in una strategia di dominio geopolitico, nonostante l’ostilità e i boicottaggi di Trump contro questo colosso delle telecomunicazioni.
Ironia della sorte: tra i Paesi che hanno scelto di adottare la tecnologia Huawei – assai più conveniente dal punto di vista economico che un piano di reindustrializzazione tecnologica nuovo di zecca – c’è un alleato chiave di Washington: nientemeno che la Gran Bretagna, da poco fuoriuscita dall’Ue sotto l’egida di Boris Johnson che è forse l’emulo più riuscito di Trump nel Vecchio Continente.
Questo ha provocato anche un certo malumore da parte dei conservatori inglesi, che avrebbero voluto, se non l’obbedienza cieca agli americani, perlomeno un tentativo di rilancio del “Made in Britain”, e comunque sono preoccupati dal rapporto simbiotico tra il governo cinese e Huawei, che – ritengono alcuni osservatori – potrebbe tradursi in raccolta in massa dei dati e in attività di spionaggio.
Nel frattempo altre società hi-tech cinesi stanno facendo notevoli sforzi per arrivare preparate ai futuri standard tecnologici, e tradurre la propria dominanza nel mercato in ricavi. Il governo non si fa attendere, e fa la sua parte investendo centinaia di miliardi di euro in ricerca e sviluppo mentre cerca di emulare l’expertise statunitense.
E non abbiamo nemmeno considerato la questione militare: la Cina spende per il suo esercito più di qualsiasi altra potenza esclusi gli Stati Uniti, e nell’ultimo decennio il budget ha visto aumenti a doppia cifra, superando il Regno Unito già nel 2008. La capacità d’intervento di Pechino non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella americana, ma con l’allontanamento di Trump dal Mar Giallo ha raggiunto ormai una posizione incontrastata in Estremo Oriente.
La morale è che, al netto del rallentamento economico, del ridimensionamento dei sogni di gloria dovuto all’ultima pandemia globale e al fatto che probabilmente anche un eventuale inquilino Democratico alla Casa Bianca confermerà l’approccio protezionista di Trump sulla Cina, il Paese asiatico condizionerà la forma del mondo negli anni a venire, in forme sempre più evidenti.
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