Come il classico vaso di Pandora, lo scandalo di Cambridge Analytica, la società di marketing online che avrebbe utilizzato in modo illegale i dati di 50 milioni di utenti di Facebook per influenzarne le scelte elettorali – questione rivelata da un articolo del New York Times e già ribattezzata Datagate – ha mostrato il doloroso nervo scoperto in casa Menlo Park: quello della privacy e delle politiche di trattamento dei dati da parte del social network.
Una debacle d’immagine che si è tradotta in un crollo azionario nella giornata di ieri, quando le azioni della società quotate a Wall Street hanno ceduto quasi il 7%, “bruciando” circa 37 miliardi di dollari di capitalizzazione. Il ribasso ha avuto anche un impatto considerevole sul patrimonio netto del fondatore e ceo Mark Zuckerberg, il cui patrimonio, secondo le rilevazioni in tempo reale della Forbes Billionaires, è sceso di circa 5,1 miliardi di dollari. La ricchezza di Zuckerberg, che detiene circa il 16% delle azioni di Facebook, è stimata ora in 69,5 miliardi, facendolo scivolare dietro al cofondatore di Zara, Amancio Ortega e a Carlos Slim Helu, la persona più ricca del Messico.
Lo scandalo emerso in queste ore è solo l’ultima di una serie di cattive notizie che hanno coinvolto Facebook negli ultimi mesi. L’anno scorso il social network è stato infatti accusato di facilitare la disinformazione, contribuendo alla polarizzazione politica in Gran Bretagna, Austria, Italia e altri Paesi e consentendo in questo modo “interferenze” straniere. La notizia che la società di dati Cambridge Analytica – che ha lavorato come consulente per la campagna elettorale americana di Donald Trump – avrebbe raccolto informazioni private dagli account di Facebook senza il loro consenso ha esacerbato le preoccupazioni che il colosso web possa essere sfruttato per influenzare lo scenario politico.
Tanto più che, nonostante alcune minacce alla solidità di Facebook, come il fenomeno delle fake news e una carenza di leadership (con il responsabile della sicurezza delle informazioni, Alex Stamos, che si è dimesso proprio in queste ore), il fatturato dell’azienda è cresciuto fino a 40,7 miliardi di dollari nel 2017, con il controllo (insieme a Google) di oltre il 60% del giro d’affari nella pubblicità online. Un potere finanziario e sociale in continua espansione che, a questo punto, richiederebbe forse un intervento normativo.
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