Lo scorso anno la rivoluzione d’ottobre si chiamava Pussygate. È andata così: due giorni prima del secondo dibattito presidenziale il Washington Post riceve dalla NBC un fuorionda del 2005 di Access Hollywood, programma tv, nel quale Donald Trump, chiacchierando con Billy Bush, afferma che quando sei famoso puoi fare qualsiasi cosa con le donne, non devi neppure aspettare, ma puoi “grab them by the pussy”. Con tempismo strategico escono le prime accuse di molestie sessuali con ricadute politiche. Il partito repubblicano molla Trump, il quale ha già contro tutti: i media liberal (Nbc in testa), Hollywood e l’industria dell’intrattenimento (fuorché Kanye West appena ricoverato per esaurimento nervoso), e la Silicon Valley. Non basta: Trump vince comunque la presidenza degli Stati Uniti. Il giorno dopo l’insediamento milioni di donne riempiono le piazze nella Women’s March (il loro Se Non Ora Quando), indossando pussyhat, i cappellini rosa con le orecchie da gatto, simbolo di protesta dell’antitrumpismo (il nome è dovuto proprio al fuorionda, usato come in Italia si usano le intercettazioni).
Quest’anno la rivoluzione d’ottobre si chiama Harvey Weinstein. Il (non più) potente produttore cinematografico che in due reportage, del New York Times e del New Yorker, giornali liberal e molto critici con Trump, viene descritto come un molestatore e uno stupratore da numerose attrici. Nell’ambiente si sapeva da tempo, ma solo oggi viene fuori. Abbandonato da tutti, Weinstein finisce in un rehab a cinque stelle in Arizona dove, secondo le indiscrezioni, si presenta tardi al primo incontro, nega d’avere problemi e si addormenta mentre parlano gli altri. Ormai è un uomo finito ma non basta, diventa un simbolo, e si inizia a cercare il Weinstein in ogni campo. Il cappello con le orecchie da gatto ha lasciato il posto a una crociata contro l’uomo dominatore.
Le rivoluzioni si accompagnano sempre a un po’ di violenza. Nelle istituzioni americane l’effetto domino è inarrestabile: la mano morta di Ben Affleck nel 2000 a una vj di Trl “denunciata” su Twitter; Roy Price Chief di Amazon Studios accusato su Vanity Fair di “molestie, nepotismo e pessimi gusti tv”; Oliver Stone accusato su Twitter di aver molestato una coniglietta di Playboy a un party nel 1990; cinque giorni dopo aver definito il proprio fratello un uomo bugiardo e malato, Bob Weinstein, è accusato suVariety di aver “insistentemente fatto proposte romantiche a una showrunner”; James Toback accusato da più di duecento donne al Los Angeles Times, s’è difeso negando ogni molestia per motivi di salute (meglio dirsi impotenti che porci); Mark Halperin è stato scaricato dalla Nbc per comportamenti inopportuni.
Le regole che hanno consentito a Donald Trump di essere presidente sono meno restrittive di quelle che consentono a Kevin Spacey di interpretare il presidente Frank Underwood. Netflix ha deciso di eliminare il protagonista di House of Cards dalla sesta stagione. E non distribuirà neppure Gore, biopic su Gore Vidal interpretato da Spacey (a rigore non avrebbe mai dovuto celebrare un autore che oggi sarebbe rivalutato e messo alla gogna). La International Emmy Founders Award gli ha revocato il premio, come se fosse stato conferito per buona condotta. A scatenare la damnatio memoriae le accuse di Anthony Rapp, attore quarantaseienne, il primo a raccontare che Spacey lo aveva molestato trent’anni fa: quando lui aveva quattordici anni. L’attore messicano Robert Cavazos ha ricordato su Facebook di quella volta che lo ha toccato al bar, un anonimo su Vulture gli dà del pedofilo. Ciò che fino a qualche anno fa era risaputo nell’ambiente, oggi è pubblico e tra le altre cose distrugge una carriera.
È anche la rivoluzione del gossip elevato a materia processuale. Non è un caso che sia il Sun a raccontarci dei ragazzi in costa amalfitana ai quali Spacey chiedeva massaggi regalando vestiti da mille euro, o Tmz a cui Anello, la guardia del corpo di Mariah Carey, racconta le molestie subite dalla cantante che gli si presentava mezza nuda, o Page Six a tenerci aggiornati sull’ultimo caso di masturbazione compulsiva in presenza di adulte non consenzienti. Il processo si fa online e si cede discrezionalità al commento collettivo con hashtag. Una modella ha dovuto scusarsi per aver fatto i complimenti a un attore quattordicenne. È il primo caso registrato al mondo in un cui un ragazzino vada difeso dai complimenti, anzi no “commenti inappropriati”, online di una modella.
Siamo di fronte a una rivoluzione, a un punto di non ritorno tra i rapporti di potere? La correttezza politica ha almeno 30 anni negli Stati Uniti, ma solo di recente s’è radicalizzata. Abbiamo assistito a: donne che registrano commenti allusivi per strada (“Amsterdam, selfie con i molestatori per denunciare i maltrattamenti”); articoli nei quali si diffondono parole del discorso femminista atte a svalutare l’avversario polemico: il privilegio del maschio bianco (white privilege), se un uomo critica una donna diventa “mansplaining”, o se mette in discussione le parole di una vittima diventa “victim blaming” (poco importa che sia in contraddizione con la presunzione d’innocenza); fino alle battaglie in metropolitana contro la postura degli uomini (manspreading).
La correttezza americana s’è radicalizzata ancor prima che Donald Trump vincesse. Il Movimento Black Lives Matter, contro l’uso indiscriminato della violenza della polizia sugli afroamericani, ha convinto l’Academy a riconsiderare i ruoli dei film con protagonisti di colore. Era l’anno degli #OscarSoWhite, il boicottaggio all’Oscar in cui a presentare c’era Chris Rock, un nero. Kevin Hart salì sul palco scherzando: “Applaudiamo tutti gli attori neri che non sono stati nominati questa sera”. Nel 2017 i giornali si chiedono se abbiano assistito agli Oscar più politicamente corretti di sempre. Hanno addirittura candidato a miglior sceneggiatura l’autore drammaturgo August Wilson, morto da 12 anni: era nero. Su nove film candidati, tre implicavano la difficoltà dell’essere afroamericano (Hidden Figures, Moonlight, Fence). A vincere tutto è Moonlight, un film con attori neri, omosessualità, persecuzioni, bullismo. E ovviamente l’intera cerimonia s’è svolta ricordando quanto tutti odiano Donald Trump.
Secondo Susan Faludi, femminista preferita da Gloria Steinam, la differenza tra il caso Trump e Weinstein è in chi ti accusa: le celebrity hanno vero potere e Angelina Jolie conta più di una sconosciuta che accusa Trump. Sarà certamente vero, ma quel che abbiamo visto è che attrici e attori minori si sono ribellati ad attori ben più potenti di loro. Se è vero quel che scrive Elias Canetti, cioè che il potente è l’ultimo a restare in piedi, forse è vero il contrario di quanto sostiene Faludi. Cioè che le celebrity non hanno più alcun vero potere, e lo si evince dal modo in cui corrono a farsi scrivere le loro scuse e, per espiare i peccati, si rinchiudono in rehab nel deserto e cadono nell’oblio.
Forse Donald Trump è un contraccolpo al politically correct americano, come sostiene tra gli altri Bill Maher. Ma questa rivoluzione dei costumi sessuali in ambienti liberal è una presa di posizione contro il documentato sessismo alla Casa Bianca: se non puoi combatterla coi cappelli crea un ambiente nel quale non può sopravvivere. Lo scrittore Gay Talese ricorda con una punta di fastidio gli otto anni di Barack Obama nei quali era impossibile dire qualcosa di politicamente scorretto, contro di lui o di sua moglie, e oggi dice che farebbe un ritratto a Kevin Spacey e non a Anthony Rapp.
Per Camille Paglia il politically correct non è altro che l’istituzionalizzazione della fossilizzazione di idee rivoluzionarie un tempo vitali, che oggi sono solo trite formalità. Se negli anni ’50 e ’60 si metteva in discussione l’autorità, oggi il liberalismo è diventato “grottesco e autoritario: riduce gli individui a un’identità di gruppo, vittime permanenti, che negano agli altri il diritto a sfidare quel gruppo e la sua ideologia”. Lo scandalo Weinstein incoraggia chi vive e prospera all’interno delle istituzioni liberal a sterilizzare l’ambiente “tossico” patriarcale. Il vittimismo come forma collettiva di potere a cui non puoi opporti e che non può essere messo in discussione si unisce a una radicalizzazione del politically correct per difendere le donne dagli abusi.
Considerare le violenze o le molestie sessuali unicamente come prodotti della società o del linguaggio porta l’élite americana a una serie di controriforme puritane: intensifica ciò che Harold Bloom chiamava in campo accademico la scuola del risentimento (sostituendo la dimensione estetica con la dimensione politica); purifica il linguaggio (manuali e corsi per evitare situazioni e frasi inappropriate che urtano la sensibilità e la suscettibilità dei colleghi); taglia rapporti con produttori, attori, comici (Fx, Hbo e Netflix che per manovre di marketing considerano negativa l’affiliazione a uomini un tempo stimati e oggi esposti al processo mediatico). Questa crociata neopuritana non ha l’effetto di migliorare la condizione delle donne in ambienti riparati (e d’altronde Hollywood nel 2017 non è come l’India), ma è soprattutto il tentativo di combattere Trump sterilizzando l’ambiente entro il quale si crede sia proliferato. Se è vero che Trump è una reazione a Obama e gli scandali più o meno sessuali sono una reazione a Donald Trump, quale sarà la prossima rivoluzione d’ottobre?
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