I Bitcoin, e in generale le criptovalute, divorano energia. Stando alle analisi di Digiconomist, a novembre 2017 il consumo energetico legato ai soli Bitcoin (ma esistono diverse altre monete virtuali) si avvicinava al consumo di energia della Slovacchia.
Probabilmente, la maggior parte delle persone che speculano sulle criptovalute, ignora questa parte del mondo Fintech. Dopo tutto quanti di noi si informano sull’impronta ecologica che ha un centesimo di euro (fatto di rame) o una banconota da 100 dollari fatta di carta?
Il problema è che le criptovalute non sono solo altamente energivore. La struttura attuale del mining (azione che sta alla base della creazione di criptovalute) implica una continua e crescente domanda di risorse energetiche dirette e indirette che avranno (se si continua con questo trend e queste tecnologie) un impatto sempre più devastante sull’ambiente.
Per comprendere la complessità e il rischio di questo scenario scomponiamo in singoli elementi il mondo del mining di criptovalute.
Il duro lavoro dei minatori
I “minatori” forniscono il necessario potere di calcolo per far funzionare il sistema blockchain: di fatto calcolando un elevato numero di funzioni (ashes) per trovare un blocco valido.
Ogni blocco validato da un minatore viene aggiunto al sistema di blockchain. Questa operazione genera una ricompensa per il minatore e rende molto più complesso il lavoro di un estraneo (leggasi pirata informatico, Hacker, potenza straniera malevola) che volesse attaccare il sistema e riorganizzare il registro (vi sono numerosi analisi in rete per spiegare l’intero processo in dettaglio).
L’evoluzione dei minatori
L’attività del minatore digitale si è evoluta: da hobby di pochi individui con una discreta conoscenza in ambito IT che utilizzavano pc “potenziati”, oggi abbiamo un’industria capital-intensive (che richiede investimenti economici importanti), che utilizza macchine con configurazioni hardware create su misura per il mining.
Nel tempo si sono evoluti vari soggetti: i grandi agglomerati di minatori fisici e quelli virtuali. I primi, i grandi minatori fisici, nel tempo si sono strutturati e mantengono grandi data center in tutto il mondo. I secondi, i mining pool composti da individui e gruppi di minatori che indirizzano il loro potere di calcolo verso aggregazioni virtuali, dato il potere di calcolo composito acquisito, possono ambire a trovare con maggior frequenza blocchi e migliorare le performance di guadagno. Molte mining pools sono divenute di fatto strutture professionali che offrono persino il supporto alla clientela tra i loro servizi.
Più i minatori diventano bravi più inquinano.
Se con un computer equipaggiato per minare si ricava un Bitcoin al mese, con 10 computer si dovrebbero guadagnare 10 Bitcoin.
Nel mondo delle monete virtuali, per evitare una possibile sovra produzione di moneta è stato creato un approccio radicale: maggiore è il potere di calcolo che viene aggiunto dal minatore, maggiore diventa la difficoltà richiesta nel risolvere i “puzzles” che permettono al minatore di guadagnare una ricompensa. Questo ha portato a un aumento della difficoltà di risolvere i calcoli.
La crescente necessità di potenza di calcolo ha di fatto creato i presupposti per la nascita dei Mining pool, che suddividono la ricompensa tra tutti i partecipanti al gruppo di calcolo sulla base della percentuale di potenza di calcolo resa disponibile da ogni minatore.
In questa competizione tra potenza di calcolo e difficoltà di calcolo si è venuto a creare un circolo, se consideriamo l’impatto sull’ambiente, vizioso.
Nulla si crea nulla si distrugge
Fatto chiaro questo circolo vizioso, è necessario mappare dove sono presenti i maggiori minatori reali (chi di fatto ha macchine che calcolano e consumano energia).
Stando all’analisi dell’Università di Cambridge, sono due i Paesi che hanno attività estrattive importanti: la Cina con il 58% e gli Usa con il 16%.
I costi energetici diretti che i minatori sopportano sono di due tipi: domanda energetica da parte delle macchine per il calcolo e domanda energetica per gli impianti di condizionamento e raffreddamento delle macchine calcolatrici (qualunque gamer sa quanto il pc si scaldi durante una sessione di un videogioco “pesante”).
Se vogliamo fare un paragone con una realtà simile, consideriamo le grandi server farm delle compagnie IT e media (Facebook e Google tanto per citare due casi occidentali): la scelta su dove collocare questi grandi consumatori di energia cade usualmente in aree dove il costo energetico è basso e , se possibile, dove il clima è piuttosto rigido, tale da poter risparmiare sui costi di raffreddamento.
Cosa cercano i minatori
Tre elementi sono di particolare interesse per i minatori. Il primo è il risparmio energetico, o per meglio dire un costo energetico basso. In questo caso alcune nazioni (ad esempio la Cina) hanno un costo energetico basso.
Un secondo aspetto non meno importante è il clima. Avere una miniera in una zona con un clima rigido può aiutare a ridurre i costi di raffreddamento delle macchine estrattive. In questo caso Nord Europa, Russia, Canada e Alaska sono le regioni più favorevoli.
Il terzo e ultimo aspetto, ma non meno importante, è la disponibilità di una connessione veloce. Ciò implica una rete ad alte capacità ed uno Stato che la possa sostenere (in termini di manutenzione, sicurezza ecc…).
Tenendo presente questi 3 elementi è possibile tracciare una mappa delle aree ideali, che coincidono in buona parte con Stati Uniti e Cina.
Come si produce elettricità
Come già detto, Usa e Cina rappresentano, da soli, quasi l’80% dell’intera attività estrattiva.
Vale la pena considerare che il mercato energetico di entrambi questi Paesi è ben lontano dall’essere ecologicamente sostenibile. Come tracciato dalla EIA, la produzione energetica cinese nel 2016 era ancora basata per il 73% sulla combustione del carbone e su altre energie fossili.
Consideriamo, solo per fare un esempio, l’attività estrattiva di Bitmain Technologies. Il gruppo ha un’attività estrattiva nella regione cinese di Ordos e la sua domanda energetica è soddisfatta dalla produzione energetica locale basata sull’industria del carbone.
Gli Usa, che contribuiscono con quasi il 20% alle attività estrattive di criptovalute, sono anch’essi pesantemente dipendenti dalle risorse energetiche fossili. Tra carbone e gas oltre il 64% della produzione energetica americana dipende da energie non rinnovabili e inquinanti.
Soluzioni?
Un approccio radicale potrebbe provenire dall’inventore del sistema di file sharing BitTorrent: Bram Cohen.
Cohen ha creato il sistema di BitTorrent per gestire (potremmo dire in modalità intelligente) la gestione dei file per lo scarico di blocchi di dati di dimensioni importanti. Ha annunciato poche settimana fa che sta lavorando ad un nuovo sistema che mira allo sviluppo del Proof of Time e Proof of Storage.
In termini pratici, invece di avere una moneta basata sul proof of Work (POW) che consuma energia, mirare ad utilizzare lo spazio libero negli hard-disk dei minatori.
L’idea è interessante e il suo creatore ha già nel pedigree un approccio innovativo per distribuire potenza di calcolo e dati.
Basterà ad impedire che la prossima crisi ambientale porti il marchio del Bitcoin?
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