Guardati dagli amici. E’ quel che hanno pensato lunedì i vertici di Remington, la mitica fabbrica di armi Usa che nel 2016 ha festeggiato i due secoli di attività, nel momento di depositare la richiesta di ammissione al Chapter 11, ovvero la procedura prevista dalla legge Usa per consentire alla società di proseguire la sua attività in attesa di un piano per ripianare i debiti. Un epilogo inatteso perché, dopo la vittoria elettorale di Trump, un “amico sincero” dei produttori di armi da fuoco, Wall Street aveva scommesso su un futuro radioso per uno dei simboli dell’America “che sa farsi giustizia da sé”. Ma nell’era Trump le vendite della Remington sono scese dal picco di 11 milioni di revolver a poco più di 7 milioni di pezzi, confermando una regola all’apparenza bizzarra: le vendite di armi per l’autodifesa personale salgono quando l’opinione pubblica percepisce una maggior tolleranza nella gestione dell’ordine pubblico e una minor attenzione per la sicurezza. Al contrario, quando lo Stato viene giudicato più severo, scema la voglia di trasformarsi in Rambo o giustizieri.
Il picco delle vendite di Remington risale al 2009, il primo anno della presidenza Obama. In un’intervista del 30 novembre di quell’anno l’allora amministrazione delegato Ted Torbeck dichiarò che “dopo le elezioni presidenziali, la domanda di munizioni è aumentata per le preoccupazioni che la nuova amministrazione farà ulteriormente limitare l’uso o l’acquisto di armi da fuoco e munizioni e imporrà imposte addizionali su questi prodotti”. “Da quel momento – aggiunse il ceo – noi abbiamo varato un’aumento della produzione, che prevede ulteriori ore di lavoro straordinario dei dipendenti ed istituisce turni di produzione aggiuntivi”. In quel periodo Remington acquistò anche una fabbrica di silenziatori e aveva riavviato la produzione di pistole dopo 12 anni di assenza dal mercato.
Formidabili quegli anni. Molte cose, infatti, sono cambiate. La nobile ditta, la corporation Usa che può vantare il record di non aver mai cambiato tipologia di prodotto fin dalla nascita, ha attraversato una prima crisi nel 2012, ai tempi della strage di reputazione dopo la strage alla scuola di Sandy Hook in Connecticut, in cui l’assalitore aveva usato un fucile d’assalto Remington. In quell’occasione il nuovo proprietario, il fondo Cerberus, aveva annunciato che avrebbe ceduto la società.
Ma, al contrario, Remington figura ancora nel portafoglio del private equity controllato da Stephen Feinberg, grande elettore di Trump che ha deciso di puntare sul trend in ascesa delle vendite. Scelta giusta, almeno fino all’arrivo di Trump. Da allora sull’azienda di Madison sono piovuti come tanti proiettili i debiti: nel 2017 la perdita operativa ha raggiunto i 28 milioni di dollari.
E’ facile prevedere che la ditta fondata nel 1816 dal fabbro Eliphalet Remington per produrre canne da fucile che gli agricoltori montavano sui fucili prodotti in casa supererà anche questa crisi. Soprattutto se, come ha dichiarato al Washington Post il presidente della American Rifle Association, “i democratici vinceranno le elezioni di novembre. In quel caso i titoli di Remington e di Smith& Wesson torneranno a volare”.
Ma resta una lezione: in occasione delle elezioni non basta azzeccare l’esito del voto. La cosa che conta è saper valutare gli “effetti collaterali” del voto. In vista del 4 marzo, per esempio, non è affatto detto che la pioggia di dichiarazioni su sgravi fiscali, tasse piatte in testa, abolizione della legge Fornero e reddito di cittadinanza si traducano, in caso di vittoria delle forze politiche che sostengono queste soluzioni, in un forte aumento di consumi da parte degli italiani. Al contrario, non è escluso che cresca la propensione al risparmio (assieme a quello del lavoro nero). Magari con effetto positivo sui Pir e su altre forme di risparmio attraverso il mercato mobiliare. Alla faccia dei private e dei fondi Usa che, come Bridgewater, stanno vendendo a piene mani allo scoperto.
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