Non autoritratti, ma rappresentazioni di sé. E la questione cambia eccome, perché “se ogni ritratto è una rappresentazione di sé, non tutte le rappresentazioni di sé sono autoritratti”. A parlare è Martin Bethenod, co-curatore insieme a Florian Ebner della mostra Dancing with Myself (fino al 16 dicembre 2018) allestita presso gli spazi di Punta della Dogana, a Venezia. In una società dominata dal culto dei selfie, la distinzione non è affatto lapalissiana.
Nata dalla collaborazione tra la Pinault Collection e il Museum Folkwang di Essen, l’esposizione analizza la centralità della rappresentazione di sé nell’arte contemporanea attraverso 140 opere (80 delle quali mai esposte a Venezia) realizzate da 32 grandi artisti internazionali, tra cui Alighiero Boetti, John Coplans, Urs Fischer, Gilbert & George, Nan Goldin, Damien Hirst, Urs Lüthi, Bruce Nauman e Giulio Paolini. I lavori esposti – si va dalla scultura alla fotografia fino al video e la pittura – esplorano la capacità degli artisti selezionati di trasformare il proprio corpo in uno strumento in grado di veicolare pensieri e messaggi a tema sociale, razziale, di genere e di identità.
Travestito, mozzato, sfigurato e spogliato, il corpo è materia da plasmare secondo la propria urgenza comunicativa: “Uso me stessa nello stesso modo in cui userei una modella. Le mie opere non sono autobiografiche”, ha detto Cindy Sherman. E i suoi ritratti dominano due sale del museo: nel corpus di opere realizzate tra il 1976 e il 1978 interpreta vari ruoli femminili, dalla studentessa frivola alla casalinga, mentre nella serie di lavori ultimati recentemente, nel 2016, veste i panni di alcuni personaggi alle prese con la vecchiaia, ispirati alle dive del cinema muto. La sua immagine è il mezzo per raccontare l’evoluzione del ruolo della donna nella società contemporanea. A riflettere invece sulla precarietà e la mutevolezza dell’essere umano è l’artista svizzero Urs Fischer, che si rappresenta come una gigantesca candela destinata a sciogliersi completamente.
Sono artisti che danzano con loro stessi, quelli in esposizione, ma nelle loro opere non c’è alcuna traccia di autocelebrazione. Come nel caso di Bruce Nauman, famoso per aver detto: “Nel mio studio non c’era niente, perché non avevo abbastanza soldi per procurarmi i materiali con cui lavorare. Così sono stato costretto a esaminare me stesso”. Fu così che iniziò a girare video ossessivi in cui filmava se stesso mentre eseguiva azioni meccaniche e autoimposte. In mostra a Punta della Dogana c’è il suo Bouncing in the Corner n°1, che lo vede cadere all’indietro ripetutamente in un angolo del suo studio. Un altro esempio è quello di Alighiero Boetti, talmente affascinato dallo sdoppiamento della personalità da decidere di farsi chiamare Alighiero & Boetti. Poco prima di morire per un tumore al cervello, realizzò una scultura di se stesso che lo rappresentava mentre si bagnava la testa con un tubo dell’acqua. Grazie a una resistenza elettrica, la scultura raggiunge temperature elevate e l’acqua si trasforma in vapore acqueo. Con quell’opera, Boetti riassumeva tutte le paure legate all’avvicinarsi della morte.
Nelle sale di Punta della Dogana – magistralmente progettate dall’architetto giapponese Tadao Andō – si rincorrono storie, visioni e pensieri sul mondo. Il risultato è una mostra corale che tematizza alcune delle trasformazioni più importanti del XX secolo: ci sono i tabù infranti dal fotografo John Coplans, che all’età di settantanni decise di ritrarsi nudo. “La questione centrale è la domanda su come la nostra cultura consideri l’età: ovvero che vecchio è brutto. Io ho settant’anni: se accetto la situazione culturale, sono un uomo morto”, disse. Con i suoi primi piani che rivelavano rughe, pieghe e imperfezioni, Coplans lanciava una sfida culturale alla società edonista degli anni ’80.
La violenza sulle donne è invece incarnata dall’immagine del viso tumefatto della fotografa Nan Goldin dopo essere stata picchiata dal compagno Brian. Con quell’autoscatto, Nan one month after being battered, era giunta agli estremi delle sue Ballad of Sexual Dependency, celebre serie fotografica con cui ritraeva la vita, gli amori e le sofferenze del suo gruppo di amici. Dopo quello scatto si allontanò per sempre dal compagno e dalle sue Ballad. Ma c’è tanto altro in Dancing with Myself. A mancare – volutamente – è il racconto dell’uso dell’autoscatto nell’epoca dei social network. La mostra termina proprio dove inizia l’era dei selfie: “Abbiamo deciso di fermarci subito prima del periodo che viene definito «post internet» e della generazione dei social network”, racconta Martin Bethenod. “La mostra non comprende opere di quella generazione internazionale – europea, americana, asiatica – che si avvale in particolare dei social network per la messa in scena di se stessa, per interrogarsi sull’identità”. Mancheranno i selfie, ma Dancing with Myself rimane un ritratto vividissimo delle paure, ossessioni, manie e follie del mondo in cui viviamo.
Per altri contenuti iscriviti alla newsletter di Forbes.it CLICCANDO QUI .
Forbes.it è anche su WhatsApp: puoi iscriverti al canale CLICCANDO QUI .