Al terzo giorno la febbre scese. Ieri lo spread tra Btp e Bund ha abbandonato quota 190, il massimo toccato in avvio di settimana, per scendere a 180 punti. Intanto Piazza Affari è sembrata più concentrata a speculare sui possibili annunci di Sergio Marchionne all’Investor day di inizio giugno che non a pianificare l’uscita dal paniere Ftse Mib che, al di là delle emozioni legate alle novità politiche, resta di gran lunga l’indice leader del 2018, con un rialzo superiore al 7%, cinque lunghezze in più sulla Borsa tedesca.
Il primo vero test arriverà tra qualche settimana, probabilmente il 13 luglio, quando Fitch, assai perplesso sul programma della nuova maggioranza, aggiornerà il rating sull’Italia, oggi di soli due scalini sopra l’inferno riservato ai junk bond. Nel caso l’agenzia, assieme a Moody’s e S&P, decida di far scivolare la pagella del Bel Paese sotto la categoria B, il finanziamento del fabbisogno italiano non potrà più passare per regolamento dallo sportello della Bce, così come le forniture di liquidità che consentono al sistema bancario di funzionare assicurando i pagamenti dei clienti. Nel caso le agenzie decidano per una doppia retrocessione (solo Dbrs, comunque critica, ci mantiene tre gradini sopra la soglia), le banche non potrebbero più presentare i Btp a garanzia dei prestiti. A quel punto, venuto meno lo scudo della Bce, lo spread non potrebbe che volare all’insù. Per superare l’impasse, l’Italia dovrebbe piegarsi all’arrivo della Trojka, la medicina già imposta alla Grecia, all’Irlanda e al Portogallo. A meno che l’Italia, partner molto più robusto dei Paesi già sottoposti all’amara medicina (che pure ha fatto un gran bene al reddito degli spagnoli, oggi più robusto di quello degli italiani), non riesca ad imporre una nuova strada per uscire da quella che Paolo Savona, possibile nuovo ministro dell’Economia, ha definito “la gabbia tedesca”, ovvero l’euro.
È questa la posta in gioco di questi mesi per i portafogli degli italiani. Anche se il duello cade in un contesto assai meno drammatico di qualche anno fa. Il Tesoro non arriva impreparato all’appuntamento. Da inizio anno l’Italia ha già emesso 125 miliardi di obbligazioni a medio e lungo termine, quindi ha già completato più del 50% del suo obiettivo di funding per il 2018. Questo vuol dire, sottolinea Chiara Cremonesi di Unicredit, che ci sarà meno pressione nell’offrire bond nei prossimi mesi: solo 10 miliardi di emissioni nette (tenuto conto quindi della copertura dei bond in scadenza) per l’Italia nel periodo giugno-dicembre. Questo saldo netto sarà facilmente assorbibile dagli acquisti della Bce nel programma di quantitative easing (stimati per 15 miliardi di euro).
Da un punto di vista sostanziale, poi, l’Italia presenta conti relativamente solidi: dispone di un avanzo primario non disprezzabile, un surplus delle partite correnti ottenuto sì con la deflazione salariale, ma anche con una miracolosa ripresa della competitività nelle nostre grosse nicchie di forza. Le banche hanno un problema strategico di profittabilità, ma non hanno più quello della sottocapitalizzazione. E non dimentichiamo lo stock di risparmio nelle mani delle famiglie che continuano a rimpolpare le casse dei Pir (2 miliardi nel primo trimestre). La somma di debito privato e pubblico in rapporto al Pil è uguale, non superiore, a quella di quasi tutti i Paesi industrializzati. Diciamo che l’Italia è in equilibrio e non ha, tecnicamente, bisogno di svalutare. Non ha però la forza, in queste condizioni, di aggredire alcuni gravi problemi strutturali, primo tra tutti la disoccupazione giovanile.
Emerge così un quadro di difficile interpretazione per chi vuole agire sui mercati. A consigliare prudenza sono gli inevitabili scossoni cui verrà sottoposta la navigazione della finanza pubblica. Ma l’eccessiva prudenza rischia di far perdere le buone occasioni perché Piazza Affari è comunque l’espressione della seconda economia manifatturiera europea, ricca di proposte interessanti.
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