Facile ridere dei passi falsi degli altri, quando sono le tue velleità che si realizzano. Immaginate, nel contesto giornalistico attuale, dove ormai persino l’atmosfera di Pyongyang può essere descritta seduti in un bar di Sperlonga, dove i quotidiani d’Italia hanno sul libro paga sì e no una dozzina di corrispondenti in tutto, e sempre gli stessi da trent’anni, ecco immaginate in questo contesto di poter essere pagati per girare mezzo mondo, insieme alla vostra famiglia, e raccontare ciò che state vedendo; con il permesso di attingere a piene mani alle peggiori pennellate impressioniste di Zola, senza dover dimostrare un bel niente con numeri e cifre, senza dovervi preoccupare se quanto dite ha piena attinenza con la realtà. E farlo sapendo di avere un pubblico di centinaia di migliaia di persone, fedelissime, pronte a leggere i vostri diari con il batticuore riservato ai profeti. Non sarebbe fantastico?
Nel giornalismo italiano, questo sogno prende la forma dei reportage di Alessandro Di Battista per Il Fatto Quotidiano, e andrebbe celebrato come uno degli eventi letterari più rappresentativi di quest’epoca. Dal 1 giugno l’ex deputato del Movimento Cinque Stelle è “partito per le Americhe” – ci fa sapere il quotidiano di Marco Travaglio – nelle vesti di inviato speciale, con la moglie Sahra e il figlio Andrea al seguito, e ha assunto le strane vesti del testimone di tutto ciò che è vecchio e in dismissione oltreoceano, essendo nel contempo ambasciatore del nuovo in Italia. Le prime tappe di questo viaggio sono San Francisco e la Silicon Valley, dove l’autore, nel primo pezzo pubblicato, si è impegnato a criticare la retorica globalista e tecnologica. L’ha fatto da una prospettiva particolare e riscontrabile riga dopo riga: quella del papà che gira il Nuovo Mondo col passeggino, tutto buonsenso ed empatia spicciola.
Le armi narrative dell’autore sono quelle da sempre ricorrenti nella sua retorica pubblica, come sa chi lo segue e studia. La prima è la trivializzazione. Di Battista fa capolino nel quartier generale di Facebook, a Menlo Park, e spiega come qui “vengono garantiti ai dipendenti diritti che al 99 per cento degli americani sono preclusi”. Vale a dire una mensa dotata di ogni ben di dio e un angolo in cui i dipendenti possono giocare al videogame Street Fighter. Qual è la fonte di Di Battista nel decretare come vive il restante 99 per cento degli americani? Non ci è dato sapere. L’ex parlamentare, 40 anni, già autore di tre libri, però ha gioco facile a contrapporre lo splendore dei lavori dell’hi-tech ai lati oscuri dell’economia: a cominciare da Elon Musk che starebbe licenziando il 9 per cento dei dipendenti di Tesla, per passare dagli affitti impossibili di San Francisco e finire coi senzatetto che abbondano nelle strade “vittime dell’emarginazione, della droga che divora anche i denti, dell’incomunicabilità”.
Uno dei quartieri della città californiana diventa facile metafora per questo capitalismo dalle mille contraddizioni: “Ho girato il Tenderloin in lungo e in largo, qualche volta ho dovuto cambiare strada”, spiega Di Battista. Vuole conoscere i nuovi poveri figli dell’ineguaglianza crescente. Fa volontariato in una mensa. “Volevo parlare con quelle persone. Ci ho provato, ma non è stato semplice”. Riflette sugli americani, “bombardati da pubblicità e promozioni di ogni tipo”, “tormentati dall’ansia dell’acquisto”, “spesso consumatori prima che cittadini”. Se da noi il risparmio è “tutelato e incoraggiato dalla Costituzione italiana”, in America “è visto come un ostacolo”. Non è stupido, Di Battista: i suoi sono luoghi comuni che richiamano al mondo di Turisti per caso, stereotipi serviti a un pubblico indaffarato e che non trova la voglia di approfondire, ma che è anche alienato da qualunque esegesi della competizione e del Progresso.
Le banalità sui tossici e i senzatetto di Tenderloin (non “il Tenderloin”, come scrive il reportagista) gli servono per introdurre la sua seconda arma retorica: l’imprecisione. L’ex parlamentare Cinque Stelle asserisce, senza alcun tentennamento, che:
La piena occupazione non esisterà mai più. Basta farsi un giro per la Silicon Valley per rendersene conto. Basta osservare i risultati già raggiunti dall’Intelligenza artificiale per definire ciarlatano chi promette milioni di nuovi posti di lavoro.
Sarebbe interessante approfondire quest’ultima frase, detta in un momento in cui il capo ideologico del suo partito propone l’elezione dei senatori per sorteggio, ma soffermiamoci sulla prima. “Molti lavori stanno scomparendo, anche lavori umili”, spiega Di Battista, mostrando di non avere le idee chiare sulla disoccupazione. In questo momento negli Stati Uniti i senza lavoro sono il 3,9 per cento della popolazione, il punto più basso da circa un ventennio a questa parte. Per capirci: tra il 1948 e il 2018 la media della disoccupazione negli Stati Uniti è stata del 5,78 percento, raggiungendo il massimo nel 1982, con l’11 percento circa. E in California, la patria della Silicon Valley? 4,3 percento, anche qui ai minimi storici. Nonostante – o forse proprio a causa di – timori anti-robot sventolati per decenni: almeno dagli anni ’60, quando la prima crisi del settore automobilistico si affacciò sulla costa orientale, e proseguendo negli ’80, con l’arrivo dei computer. Ma i sindacati si riorganizzarono, nuove riforme del welfare furono implementate, e – ha scritto anche Forbes – nessuna di quelle profezie nefaste si rivelò fondata. Niente ci assicura che il sistema sarà capace di rimpiazzare i lavori persi con l’automazione a una velocità sufficiente per evitare rivolte di piazza, ma i numeri ci dicono che il job churning rate, il “tasso di sostituzione” dei lavori obsoleti non ci dovrebbe preoccupare come vorrebbero molti. Insomma, l’economia sembra andare benone, con un’offerta di lavoro più alta della richiesta. Ne parlo col giornalista de Il Sole 24 Ore Usa Angelo Paura: “La povertà che Di Battista vede nella Silicon Valley è un fenomeno in atto da decenni, e non ha nulla a che vedere con lo sviluppo tecnologico. Proprio nulla”, mi ha detto Paura.
A un certo punto Di Battista scrive: “[C]’è anche molta disperazione e questa ti spinge o a non accettare aiuti o a utilizzarli per la droga. Nel Tenderloin c’è chi baratta i generi alimentari ottenuti grazie al governo con un po’ di metanfetamina. E c’è chi preferisce dormire in strada, pur avendo i dollari necessari per un tetto, per potersi fare ancor di più”. “Ma anche questa è un’opinione”, dice Paura, che da cinque anni lavora negli Stati Uniti. “Non ci sono dati, fatti, elementi per sostenere un pensiero così banale sul tema della droga e sull’emergenza abitativa di San Francisco”.
È un miracolato, Di Battista? Oppure sa approfittare di standard giornalistici che consentono a firme molto più di lungo corso della sua di superare impuniti la vergogna del plagio; di coccolare il proprio pubblico unicamente a base di tweet al vetriolo, e a testate celebrate di sgraffignare i contenuti dalla Rete e spacciarli come propri, coprire gaffe e strafalcioni con l’oblio, di non ammettere gli sbagli di fronte ai lettori, e soprattutto di dare credito e spazio infinito a una serie di firme che hanno perso di vista la realtà?
Lui, di suo, ci mette i più tipici discorsi da ostello, infarcendoli di pauperismi: “Tra un paio di mesi saremo in una comunità indigena guatemalteca”, scrive Di Battista. “Una comunità senz’altro povera, ma sana, anche se non so ancora per quanto. È lì che voglio che mio figlio festeggi il suo primo compleanno. Lo voglio vedere circondato da bambini ai quali basta fare un giro nella selva o giocare con un pallone rattoppato per passare giornate memorabili”. Perché sa che il suo pubblico è una gioventù che è stata in Interrail e magari un pensierino sul volontariato in Africa ce l’ha fatto, e prova a solleticarlo con gli argomenti che vuole sentire.
A cosa serve tutto questo esercizio di retorica, nel reportage? A lanciare una predica a Cinque Stelle sull’importanza del reddito di cittadinanza (“l’unica idea che potrà strappare gli esseri umani dal pericolo di una guerra sociale imminente”) senza tuttavia aggiungere molto altro: uno studio o una fonte che ne giustifichi l’applicazione o, soprattutto, l’utilità specifica nel caso americano come in quello italiano.
L’ultimo paragrafo potrebbe in effetti far parte di un qualche bignamino delle ultime teorie accelerazioniste ora in voga a sinistra, sintetizzate da un viaggiatore zaino in spalla sulla via per Machu Picchu dopo qualche shottino di troppo: “I robot potranno accelerare quel processo di emancipazione che è nato con l’uomo. Anche senza piena occupazione, gli esseri umani potranno trovare attività alternative. In fondo di cosa abbiamo bisogno? Di salute psico-fisica, di tempo e di un reddito con cui vivere. […] Il reddito universale non è assistenzialismo. È il futuro. Purché incoraggi chi lo riceve a dedicarsi ad attività socialmente utili, sconfiggendo il male del secolo – l’incomunicabilità – con la relazione umana: l’unica attività che nessuna macchina sarà mai in grado di compiere”.
Inquadrare i reportage di Di Battista soltanto dal punto di vista stilistico e contenutistico è un’operazione tuttavia pericolosa: perché si finirebbe col perdere di vista il paradosso che stiamo osservando. Mentre l’ultimo, disperato tentativo del principale partito di centrosinistra italiano di regalarsi una sponda editoriale – il quotidiano in pdf Democratica – si riduceva a celebrare stucchevolmente l’universo startupparo; mentre altre riviste e giornali raccontavano il capitalismo di piattaforma a partire soprattutto dalla contemplazione del luxury, Di Battista – il Camilo Cienfuegos del gentismo italico, dei novax e dei generali Pappalardo – scrive i suoi diari boliviani parlando di povertà ed emarginazione con un linguaggio che non di rado troveremmo negli status Facebook dei movimentisti: un cortocircuito totale, che però ha responsabilità precise e diffuse.
Stampa e Tv non sapendo più a quali influencer affidarsi per risalire l’abisso hanno scelto di mescolare il registro fintamente progressista a quello brutalmente qualunquista, come se ci mettessero di fronte a un coinquilino ventenne qualsiasi che tra una pasta col tonno e una partita alla Playstation cerca di spiegarci perché il futuro degli africani è in Africa, l’emigrazione si combatte smettendo di lucrare sui diamanti (e comunque ci sono milioni di italiani che dormono in auto, sapevate?). Per arrivare a produrre quel suo manifesto futuribile, Di Battista ci obbliga a leggere duecento righe di patacche su come secondo lui si vive nella Silicon Valley, dimenticando di essere soltanto un turista di passaggio.
Secondo il ricercatore e blogger Paolo Ruffino bisognerebbe tornare a riflettere sulle origini dell’umorismo grillino, su “come si rifletta nella politica del Movimento, e dunque da ora nella politica nazionale.” Basta cercare Te la do io l’America, il programma che rese popolare Beppe Grillo nel 1981, su YouTube, spiega Ruffino, per capire la costante in quel modo di prendere in giro, rimasta immutata negli anni: la totale assenza di satira su se stessi, e sui modi con cui si determina ciò che è giusto o sbagliato, bene o male. Lo stile delle riprese ricorda Mondo Cane, il documentario razzista di Gualtiero Jacopetti del 1962, che fu il padre putativo di trasmissioni come Lucignolo. A essere ridicoli sono sempre gli altri: si ride delle razze, degli ebrei coi diamanti nascosti, di tipi “negri, ma simpaticissimi”, che sono “i migliori amici dell’uomo”, dei “barboni”; si ride delle stranezze degli altri, dell’America e delle sue stranezze, che per tutte le sei puntate è in realtà solo New York.
“Si ride di cose che chiunque abbia viaggiato anche solo in Europa potrebbe avere visto, e che invece sono qui presentate come abitudini senza senso”, riflette Ruffino. “La propria ignoranza diventa senso comune, verità che va oltre qualunque tentativo di comprensione dell’altro. È il modo in cui l’italiano medio spesso si approccia alla diversità, ad esempio quando viaggia all’estero, ma è anche il modo in cui ragiona il movimento che da Grillo e Casaleggio è arrivato a controllare il Paese”. Resta da capire perché Di Battista, con tutto il potere mediatico che detiene, con milioni di adepti ai suoi piedi, non perda mai occasione per sottolineare di essere uno scrittore. Come se a ripeterlo si convincesse, almeno lui, che possa essere davvero un mestiere
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