Martin Ford si è quasi sempre occupato di futuro: prima con l’iconica qualifica di “imprenditore della Silicon Valley” e poi – fino ad oggi – con l’altrettanto allettante titolo di futurologo: una professione per pochi, ma d’altronde presto le professioni saranno esclusivamente per pochi. Nel suo libro Il futuro senza lavoro (uscito in Italia per il Saggiatore, nella titolazione originale Rise of the Robots), Ford teorizza che la rivoluzione tecnologica di questi anni colpirà più duro di quanto siamo disposti (o pronti) ad ammettere. E, soprattutto, che i robot che ci “ruberanno il lavoro” sono un problema di tutti, a prescindere dal grado di istruzione e dal tipo di lavoro svolto.
Abbiamo incontrato Ford a Milano, dov’era per presentare una sua collaborazione con Lyxor e Société Générale – un Etf (Exchange traded fund) dedicato al mondo della robotica e dell’intelligenza artificiale che ha sviluppato con Daniel Fermon di SocGen, anch’egli presente all’incontro – e gli abbiamo chiesto cosa aspettarci da un mondo in cui buona parte della popolazione mondiale avrà perso il lavoro.
Nell’introduzione al suo libro Il futuro senza lavoro, dice che se non si ci adatteremo alla rivoluzione tecnologica potremmo trovarci alle prese con “la tempesta perfetta”, cioè l’intersezione tra tecnologia radicalmente innovativa, cambiamenti climatici e disuguaglianze in aumento. Quali sarebbero le conseguenze di un simile scenario?
Credo che potrebbero essere terribili, in ultima analisi potrebbe significare rivolte sociali, agitazioni anche nei Paesi sviluppati, e il caos totale negli Stati meno stabili. Due cose che tengo a ricordare: la tecnologia da sola sta già causando molta “disruption” e producendo molta disuguaglianza (negli Stati Uniti, ma anche nella maggior parte dei Paesi europei). Al momento negli Usa non abbiamo una disoccupazione alta, ma abbiamo salari stagnanti e disparità in crescita. Molte persone non ci pensano, ma il tasso di disoccupazione è basso perché abbiamo creato tanti lavori pagati poco o nulla – il commesso del fast food, il magazziniere di Amazon, questo tipo di cose – e non riusciremo a farlo per sempre: ho già a che fare con startup che lavorano a sistemi di automazione per i fast food, e Amazon stessa sta perfezionando i robot che gestiscono i suoi magazzini.
Penso che in futuro avremo meno lavoro propriamente detto, e che non dobbiamo dare per scontato che il cambiamento sarà innocuo. Ma l’idea che avanzavo nell’introduzione è che se tutto ciò diventerà un problema, e avremo persone senza lavoro, certamente queste persone non potranno occuparsi di nulla che vada al di là della loro sopravvivenza giornaliera. Il cambiamento climatico diventerà un problema che non interessa a nessuno, se percepito come in contrapposizione con gli interessi materiali. È ciò che succede nei Paesi in via di sviluppo.
E non soltanto. Pensiamo anche al cosiddetto Primo mondo, con la vittoria di Trump negli Stati Uniti, la Brexit…
Sì, assolutamente, penso che buona parte del trionfo di Trump sia una conseguenza della tecnologia. La maggior parte delle persone si concentra sul commercio globale e sull’immigrazione, perché sono sotto gli occhi di tutti – è semplice dare la colpa a qualcun altro, che si tratti di un lavoratore cinese o un immigrato messicano – mentre la tecnologia è più discreta, intangibile (ma diventerà più concreta con l’avvento di cose come le self-driving car).
Lei sostiene che i nostri presupposti riguardanti quali professioni saranno rese obsolete dalle macchine sono fondamentalmente sbagliati. Significa che la rivoluzione prossima ventura colpirà tanto le classi medio-alte quanto i ceti più bassi?
Il punto è che c’è questo preconcetto per cui, se pensiamo ai robot, ci vengono in mente macchine per le catene di montaggio e, quindi, lavoratori che non hanno titoli di studio “alti”. Eppure è del tutto vero che ci sarà un impatto enorme sui lavori da colletto bianco: in molti casi è più semplice automatizzare una professione white-collar rispetto a una da colletto blu, per la quale si necessiterebbe di macchinari costosi e ingombranti. Nei lavori più specializzati basta un software con l’algoritmo giusto. Molte professioni sono a rischio: nel settore bancario e finanziario, ad esempio, diverse persone hanno compiti ripetitivi, come compilare lo stesso report o fare la stessa analisi quantitativa. Qualche tempo fa il ceo di Deutsche Bank John Cryan ha detto che metà dei posti di lavoro della sua azienda avrebbe potuto essere sostituita da robot. Il cambiamento sarà generalizzato, e ciò in parte potrebbe essere positivo: i ceti coi salari più bassi spesso non hanno abbastanza potere politico per difendersi, ma se la trasformazione inizia a colpire più in alto nella scala sociale le cose cambiano.
Oggi si trova qui perché ha collaborato con Lyxor e Société Générale per sviluppare un particolare Etf. Di che si tratta? E come pensa che la visione di un futurologo come lei possa influenzare il settore finanziario?
È stato un anno e mezzo fa: Daniel mi ha chiamato dicendo che volevano lavorare a un Etf. È stata una bella novità per me, non ci avevo mai pensato prima ed è stato un modo per dedicarmi agli aspetti positivi della materia, dato che di solito mi soffermo su quelli negativi e pessimistici. Però, tutto sommato, ho un’idea positiva della tecnologia, per cui lavoro con Daniel per capire come applicarla a questi strumenti finanziari. Adottiamo una prospettiva allargata rispetto ad altri Etf, chiedendoci quali aziende in settori extra-tecnologici possono far leva sull’intelligenza artificiale per rivoluzionare il loro business model. Compagnie come Goldman Sachs, BlackRock e Jp Morgan stanno facendo grossi investimenti nel settore dell’intelligenza artificiale (IA). L’idea alla base del nostro fondo è che l’IA sarà una tecnologia di largo consumo, ecco perché abbiamo nel nostro portfolio azioni di società facenti parte di settori molto diversi fra loro.
Daniel Fermon: L’intelligenza artificiale non è il mio campo, e non potevo fidarmi di ciò che le aziende dicono di sé stesse, perché molte semplicemente mentono: avevo bisogno di qualcuno capace di consigliarmi, e Martin era la persona migliore a cui chiedere. Abbiamo creato un algoritmo capace di tenere sotto traccia l’IA e la robotica, e poi ci siamo concentrati su tre settori, industria, farmaceutici e tecnologia. Si è generato un universo che prima non esisteva. L’indice è stato lanciato a novembre dell’anno scorso, e un mese fa è diventato un Etf, e fa segnare risultati migliori di quelli dei 3 attuali migliori Etf sulla piazza.
Ford, ha sostenuto che la miglior soluzione al temuto “futuro senza lavoro” è un reddito di base universale. Alcuni autori molto a sinistra (penso a Nick Srnicek e Alex Williams e al loro Postcapitalism and a World Without Work) tuttavia sembrano dire che in realtà il problema potrebbe contenere la soluzione: stiamo andando verso un’economia post-capitalista capace di “liberare l’umanità dal lavoro” (citando i due suddetti autori)? Cosa pensa di questa teoria?
In linea generale sono un sostenitore del capitalismo. Credo che sia il meglio che abbiamo: ha dei problemi, ovviamente (le disuguaglianze sono uno di questi), ma è l’unico sistema su cui possiamo contare. Quando parlo di un reddito di base lo penso come a una correzione per il sistema capitalista, per fare in modo che funzioni meglio: l’idea in due parole è che le persone possono non avere un lavoro, l’importante è dar loro dei soldi perché li spendano sul mercato, tamponando le storture del sistema.
Mentre loro lo vedono come una via attraverso cui rovesciare completamente il sistema.
Esatto. Personalmente sono molto scettico verso un approccio del genere. Magari in un lontano futuro potrà tornare utile, ma la questione fondamentale riguardante il capitalismo sono gli incentivi: il principale dice che tutti devono lavorare, e che se non lavori finisci in mezzo alla strada, dico bene? Ecco, se quello non funziona entra in scena il reddito universale. Ma ci sono parecchi altri incentivi importanti: l’innovazione, gli stimoli all’impresa, eccetera. Sono cose fondamentali: col reddito si può sostenere la disruption e l’imprenditoria, ma tornare al socialismo significa farne a meno. Ecco perché sono così scettico, penso che molte persone giovani oggi non sappiano cosa sia il socialismo. Io sono abbastanza vecchio da ricordarmi i tempi dell’Unione Sovietica e della Cina in cui tutti si muovevano in bicicletta perché non esisteva altro: non esiste un esempio positivo a cui riferirsi quando si parla di socialismo applicato.
Forse un giorno ci sarà qualcosa di nuovo, che chiameremo postcapitalismo o in un altro modo da decidere, e magari avremo un’economia basata sul replicatore di Star Trek, ma per ora è una realtà lontana da venire. Credo che oggi la sfida sia correggere il capitalismo e fare in modo che funzioni bene.
Ha una lunga carriera da imprenditore della Silicon Valley capace di prevedere e comprendere i grandi cambiamenti dell’accelerazione tecnologica. Crede che il “modello Silicon Valley” abbia giocato un ruolo importante nel nostro non comprendere le minacce a cui questa rivoluzione ha esposto la società?
In un certo senso, sì. Quando parli di un “modello Silicon Valley” puoi riferirti a due cose: la prima è un certo tecno-ottimismo, l’idea che la tecnologia è sempre buona; l’altra è una cultura fortemente improntata all’imprenditoria, al tentare essendo disposti a fallire, il che è un fattore positivo. Per la prima parte, il problema al momento riguarda non tanto l’automazione quanto i social media. Facebook è stato costruito e tutti pensavano che sarebbe stato fantastico: tutti avrebbero parlato con tutti in tutto il mondo, eccetera. Quand’è stato scoperto che gli effetti sulla società potevano essere un po’ diversi, il sogno è diventato un incubo. C’è, quindi, in parte un problema a capire gli effetti sul lungo periodo della tecnologia. Ma d’altra parte, se parli del problema specifico di cui mi occupo in prima persona – le future ricadute della tecnologia sull’occupazione – in Silicon Valley ci sono molte persone perfettamente consapevoli di questo tema, come non accade da nessuna altra parte. Mark Zuckerberg stesso parla di reddito di base, così come Elon Musk: sono aperti a sperimentare soluzioni. In un certo senso, quindi, si può dare la colpa alla Silicon Valley, ma è qui che si cercano soluzioni per il futuro.
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