La guerra commerciale a tutto campo tra Stati Uniti e Cina tiene col fiato sospeso l’Europa e finirà col coinvolgere anche l’Italia, che finora ha avuto un atteggiamento ambiguo ma, in ogni caso, non potrà cavarsela con le proprie gambe. Eppure il discorso pubblico è focalizzato su altro: cosa fare degli immigrati di Riace, gli orari dei “negozietti etnici”, le percentuali di deficit dell’ultima finanziaria. Si naviga a vista. Cosa vuole davvero Donald Trump? Dopo il vertice tra il presidente americano e Jean-Claude Juncker, il capo della Commissione Europea, sembrava che la corsa ai dazi fosse disinnescata. Al prossimo summit del G20, a fine novembre, il presidente americano incontrerà il Segretario generale del Partito comunista cinese, Xi Jinping. Ma è lecito aspettarsi una distensione?
Quello che è chiaro è che Washington è spaccata tra diverse fazioni. Secondo il Wall Street Journal, a spingere per l’incontro sono stati il segretario al Tesoro Steven Mnuchin e il consigliere economico numero uno di Trump, Larry Kudlow. E tra le persone coinvolte c’è pure Christopher Nixon Cox, nipote dell’ex presidente Richard Nixon, il cui viaggio in Cina nel 1972 contribuì a riaprire le relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Se Trump è più intransigente – e vorrebbe addirittura uscire dal Wto per riportare la produzione manifatturiera in America – la maggioranza degli elettori, e il Congresso, sembrano contrari ai dazi. Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, non ha mai fatto mistero di voler evitare questo conflitto, e così pure le lobby del settore automobilistico, o importanti mecenati che un tempo votavano repubblicano, come Michael Bloomberg e i fratelli Koch. Basterà?
Se alla Casa Bianca molti vorrebbero far sedere Trump e Xi intorno a un tavolo e far mettere fine alle ostilità, per altri retroscenisti non c’è da aspettarsi molto dal G20, e la guerra commerciale continuerà. Tra gli scettici c’è Alberto Forchielli, economista e imprenditore, partner del fondo Mandarin, personalità televisiva strabordante, che da tre anni vive a Bangkok ed è un profondo conoscitore della cultura economica asiatica. Raggiunto al telefono, ci dice che quello di Trump non è affatto un bluff, ma anzi, è forse la prima promessa veramente mantenuta da quando è stato eletto. Se era stato ossessivo il riferimento alla Cina in campagna elettorale, anche il nuovo accordo per il Nafta – che adesso si chiama Usmca ed è passato quasi in sordina in Italia – va visto come una rivoluzione nel commercio che tiene fede ai proclami del Trump filibustiere, i cui effetti potrebbero palesarsi tra qualche anno, con il rafforzamento della produzione in Nord America dopo anni di saccheggio da parte dei cinesi.
Nel frattempo, dei contraccolpi dei dazi sulla Cina potrebbe beneficiare il Sud-est asiatico, e forse lo sta già facendo. “Se un’impresa ha diversi impianti, alcuni potrebbero essere spostati dalla Cina, chessò, in Vietnam”, dice Forchielli. “Nel mondo imprenditoriale si sta già pensando a questo, in realtà. C’è la sensazione che le cose possano davvero cambiare”. Ma, in teoria, Trump non potrebbe infliggere nuovi dazi anche ad altri Paesi dell’Asia? “Certo, ma bisogna aspettare. Non è un processo rapido. Ci sarà uno spostamento prima delle produzioni, poi piano piano degli investimenti. L’importante è che qualche posto di lavoro torni in America. E secondo me tornerà”.
A settembre il surplus commerciale della Cina ha raggiunto un nuovo record. Probabilmente, spiega il Washington Post, a causa di un accumulo di acquisti in previsione delle tariffe. Ma non è quello il punto centrale, dice Forchielli; non è quella la ratio dietro la politica di Trump. “Il deficit commerciale americano resterà uguale, figuriamoci. Ma sarà meno esposto sulla Cina e più su altri Paesi. Se devo fare un deficit di bilancio, lo faccio con un Paese mio alleato e non con uno che mi vuole fregare”. È, dice, una questione soprattutto geopolitica. “Il principale obiettivo di Trump è, paradossalmente, farla pagare alle aziende americane, che sono andate in Cina fregandosene di tutto e di tutti. «Fate i patrioti e tornate a casa», gli sta dicendo. Certo, sarà un processo lungo. Ma la Cina ci ha messo del suo, e indietro non si torna”. Eppure i salari americani sono comunque molto più alti di quelli cinesi, gli dico. “Ma ci sarà maggiore automazione. Qualcosa può tornare. È una strategia più lungimirante”.
La figura chiave in questa guerra fredda, il nome da appuntarsi, è Bob Lighthizer. È lui, il Trade Representative dell’amministrazione Trump, l’uomo che vuole isolare sempre di più la Cina, quello che ha architettato il nuovo accordo commerciale col Messico e col Canada, e poi gli altri accordi bilaterali con la Corea del Sud e il Giappone. “Lighthizer sa che Bruxelles è divisa e lenta nel decidere: l’Europa del nord è abbastanza favorevole a mantenere scambi con la Cina; quella del sud e dell’est sarebbe invece favorevole a un sistema di protezione, come quello delineato dal nuovo Nafta. Così lui pensa di mettere nell’angolo l’Europa, costringerla a fare fronte comune contro la Cina”.
Allora va capito se la frattura fra le due sponde dell’Atlantico è reale, se stiamo sul serio mettendo a repentaglio l’interscambio commerciale più grande al mondo, quello tra Stati Uniti e Ue – oltre mille miliardi di dollari – per non parlare di tutte le implicazioni culturali e politiche che ne derivano. Fino a qualche settimana fa, Washington aveva scelto le maniere forti: prima con i dazi su acciaio e alluminio contro l’Europa, poi – dopo la risposta di Bruxelles – con la minaccia di colpire le case automobilistiche (“ce l’hanno anche col mercantilismo tedesco, che i dazi sulle auto americane le impone da tempo”, dice Forchielli). Ma nel frattempo si sono avvicinate le elezioni di Midterm: una linea troppo intransigente rischia di spaccare troppo i repubblicani e di far perdere voti a Trump, e il presidente ha corretto il tiro. Ha così prevalso la linea, più conciliante ma ugualmente dura, di Lighthizer. Se l’accordo con Juncker ha disinnescato la corsa ai dazi con l’Europa, ha lasciato però ancora aperta la questione delle alleanze geopolitiche. “Certo Trump non potrà imporre a Bruxelles di allinearsi ai suoi dazi, ma perlomeno potrà chiedere all’Europa di non sottoscrivere separatamente un trattato di libero scambio con la Cina”.
Il modello, ancora una volta, è quello del nuovo Nafta. Adesso il Canada e il Messico sono sempre più integrati con gli Stati Uniti. La “guerra” con il Messico si è risolta, e il Paese latinoamericano sarà uno dei beneficiari della contrapposizione con la Cina (di cui, tra l’altro, è stato sempre un grande avversario economico, perché entrambi i dipendono pesantemente dall’industria manifatturiera). “Ma anche il Bangladesh, l’India, l’Indonesia, la Thailandia, la Cambogia si stanno muovendo come un branco di avvoltoi. Sperano di beccarsi le briciole della guerra”.
Da questo punto di vista, il G20 appare sempre più svuotato di qualsiasi velleità decisionale: anche se a novembre fossero mitigate alcune tensioni legate al breve, resterebbero comunque irrisolte altre questioni strategiche e riguardanti la sicurezza. Il discorso del vicepresidente americano Mike Pence della settimana scorsa è stato molto chiaro: nelle relazioni sino-americane ci sono anomalie che vanno ben al di là del commercio. Vale a dire che Lighthizer vuole regolare i conti anche col furto di proprietà intellettuale americana, coi trasferimenti forzati di tecnologia verso la Cina e con la sovraccapacità produttiva cinese, tanto per dirne qualcuna.
Ci sorveglia nella nostra discussione, virtualmente, l’economista Michele Boldrin. È amico di lunga data di Forchielli, e i due si intrattengono spesso in animati dialoghi sull’attualità su YouTube, con qualche dissenso. Tanto per cominciare con la Cina: “Dobbiamo tornare indietro”, spiegava in un video di qualche mese fa l’imprenditore, che tifa de-globalizzazione (anche se sarebbe meglio dire “de-sinizzazione”) e non ne fa mistero. Aggiungendo: “Qui finiamo a mangiare l’erba, perché non produciamo più niente e i cinesi si comprano tutto”. “Stai dicendo assurdità”, gli risponde Boldrin, secondo il quale non c’è alcuna logica dietro l’immagine di un’Europa tenuta alla fame dal gigante cinese e obbligata a comprargli tutto. “Sì, su questo siamo in squadre opposte”, mi conferma ridendo Forchielli, quando gli ricordo quello scambio. “Ma so quello che dico: tutti quelli che hanno avuto modo di fare affari con la Cina restano inorriditi. La Cina pone problemi enormi a chi vuole esportare lì. La globalizzazione ci può anche stare, ma non mi devi fregare il know-how. Non puoi esportare solo valori dittatoriali”.
Questi accordi bilaterali degli Stati Uniti con alcuni Paesi alleati trascendono il Wto, lo superano, lo fanno sembrare obsoleto. Ma come ha fatto l’Organizzazione Mondiale del Commercio a ridursi in questo stato? “Primo, accettare la Cina nel suo club [nel 2002, n.d.r]. Secondo, accettare vent’anni di comportamenti scorretti, di tipo mercantile. Con il copyright, ormai, non parlerei nemmeno più di furto, ma di un’intera società dedita al saccheggio. Tant’è che il prossimo provvedimento di Trump potrebbe essere quello di vietare le materie scientifiche in America per studenti cinesi”. E se due anni fa fosse stata eletta Hillary Clinton? “Beh, sarebbe continuata la solita politica dell’engagement, di cui la Cina si è sempre strafregata. Nonostante la mia profonda disistima di Trump, gli dico: tanto di cappello. Gli americani ora sono compatti e sono in guerra. La Cina è l’avversario da combattere. Ora bisogna vedere cosa cambierà quando i prezzi al consumo saranno affetti dai dazi. Ma è ancora una grande incognita”.
Quello che stiamo vivendo è il Great game economico che – dice Forchielli – darà vita a due immense “catene del valore globale”: una che farà perno su Cina e Africa, l’altra sul Nord America e l’Europa; disarticolando, così, l’attuale supply chain basata tutta sulla Cina. Con qualche “guerra di prossimità”, in Asia e Medio Oriente. “Torniamo al mondo della Guerra fredda”, dice. “Speriamo di non essere noi italiani a finire con la Trabant”. E in cosa dobbiamo sperare, invece? “Se tutto va bene, di tornare a essere quello che siamo sempre stati: i cinesi d’Europa, con salari più bassi e una forma di globalizzazione in cui non saremo più tagliati fuori”. Ma forse è un paragone troppo duro, non trova? “Sì, forse hai ragione anche tu. Comunque, dobbiamo tornare a produrre mobili, ceramiche e scarpe per i ricchi occidentali; riaprire, chessò, i distretti regionali che ora sono in crisi”.
Gli faccio notare che l’Italia, in questo cambio di paradigma che rischia di spostare il baricentro economico mondiale, in fondo ha un governo che mostra una certa convergenza ideologica con quello americano. “Mah. L’alleanza con Trump non esiste, è una leggenda metropolitana. Il governo italiano è al tempo stesso filorusso e filocinese, e stiamo pensando di gettarci sulla nuova Via della seta [il progetto faraonico Silk Road], che invece gli americani vorrebbero contenere”. C’è stata la missione del sottosegretario Michele Geraci, addirittura l’idea che Pechino ci possa aiutare con debito e spread. “Mah, guarda, al massimo possiamo vendergli il porto di Trieste. Non non siamo strategici per i cinesi, che sono interessati piuttosto ai Balcani, al Pireo, e fanno un gioco sporco. Molti Paesi dell’Est Europa ricevono pressioni, la Repubblica Ceca e l’Ungheria ricevono un sacco di investimenti da Pechino; che vuole dividere l’Unione Europea, e questo manda in bestia Juncker. Ma l’Italia no, figuriamoci: è un Paese burocratico, inaffidabile. Non abbiamo carne sul fuoco per i cinesi. La nostra delusione sarà cocente”.
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