Trump detta ormai da due anni l’agenda politica, economica e culturale dei media americani, con continui colpi assestati alle norme liberali. Il risultato è che stiamo sottovalutando una delle storie più interessanti di quest’epoca: la crisi di maturità dei social media, sempre più bersaglio del pubblico scrutinio e delle polemiche, con i millennial che sono diventati adulti e stanno ripensando il loro rapporto con Internet. La Silicon Valley ha perso parte della sua aura di onnipotenza, e il settore si trova ora avvolto dallo scetticismo.
Dal punto di vista finanziario, le cose non sembrano andare più a gonfie vele come un tempo. Nel secondo trimestre del 2018, per la prima volta, il numero degli utenti attivi giornalieri di Snapchat ha mostrato un calo: passando dai circa 191 milioni del primo trimestre a 188 milioni, con una ulteriore diminuzione per il trimestre successivo. La società che controlla Google, Alphabet, ha registrato sì un aumento dei profitti ma, riporta il Wall Street Journal, “una crescita leggermente più lenta delle entrate […] in un momento in cui sta affrontando anche una crescente reazione negativa da parte dei legislatori, e delle turbolenze nella propria cultura aziendale”.
Twitter, che ha dichiarato guerra agli account fake o di spam, ha riportato un calo dell’1% degli utenti attivi mensili – circa 9 milioni su un totale di 326 milioni, ma ha superato le aspettative borsistiche in termini di entrate e profitti. Amazon, dal canto suo, ha superato il terzo anno consecutivo di profittabilità, con utili del terzo trimestre per 2,9 miliardi di dollari ed entrate di 56,6 miliardi: un record, ma al di sotto dei 57,1 miliardi previsti dal mercato. Bilanci, insomma, meno brillanti di quanto anticipato dagli esperti.
Uno studio del Pew Research Center di Washington riporta come la percentuale di americani dediti all’uso di tecnologie – come gli smartphone, Internet e i social network – è sostanzialmente ferma, perché quelle tecnologie hanno raggiunto un vero e proprio punto di saturazione. Il 95% degli americani usa il cellulare; il 77% uno smartphone, l’89% Internet; il 69% i social. Per quasi un decennio, questi ultimi hanno dominato l’economia tecnologica, ma man mano che l’esperienza è diventata più satura e invasiva, gli utenti si sono rivolti alla messaggistica criptata: basti pensare ad app come Telegram, o Signal.
Un problema rilevante, perché questa fase di transizione sta facendo impazzire i colossi, che sono stati baciati per anni da una crescita esponenziale. Questa estate le azioni di Facebook sono finite in caduta libera dopo che la società aveva ammesso che le iniziative globali sulla privacy avrebbero continuato a incidere sui ricavi, e che l’attenzione degli utenti si stava spostando sempre più verso l’encrypted messaging. Come se non bastasse, nel corso dell’ultimo mese sono emerse storie dell’orrore da parte dei dipendenti di diversi marchi celebri della Silicon Valley.
Secondo un’inchiesta del New York Times, Google avrebbe nascosto le vere motivazioni del licenziamento di Andy Rubin – accusato di molestie sessuali – e di altri dirigenti dell’azienda pubblicando notizie false e pagando a Rubin una buonuscita di 90 milioni di dollari. Uno scandalo che ha fatto andare su tutte le furie i dipendenti dell’azienda, che durante una riunione ha accusato il management di aver protetto i suoi uomini di potere e di aver macchiato l’immagine di Google.
Nel frattempo il Wall Street Journal ha intervistato più di 70 dipendenti ed ex dipendenti di Netflix per un inquietante articolo in prima pagina che racconta la “cultura della paura” per i licenziamenti e la “trasparenza radicale” che vige nella compagnia di streaming online, ma viene citato anche uno studio che mostra come Netflix abbia alcuni dei dipendenti più felici tra le multinazionali americane.
Secondo il giornalista Scott Rosenberg, di Axios, “Entrambe le storie di Google e Netflix mostrano l’eccezionalismo fiducioso di queste tech company, che si scontra con il mondo reale, con gli errori umani e le iper-caricate guerre culturali”. Mentre per Kia Kokalitcheva: “Un tratto comune è che queste grandi aziende tecnologiche vengono spinte a riconoscere le proprie responsabilità nei luoghi di lavoro e nella società, e non possono più nascondersi dietro l’idealismo di ‘cambiare il mondo’ “.
I segnali vanno tutti nella medesima direzione: la stagione di scrutinio per i giganti hi-tech continuerà. ll tema della privacy sarà centrale l’anno prossimo, nel confronto, a Washington, tra i senatori e i rappresentanti della Silicon Valley. Le grandi aziende spingono affinché i legislatori di Capitol Hill anticipino e blocchino le nuove, stringenti regole dello Stato della California, prima che queste entrino in vigore nel 2020. Le compagnie tecnologiche vorrebbero in definitiva che lo Stato federale proibisca ai singoli Stati di passare le proprie leggi. Ma per adottare in cambio quale modello? Il General Data Protection Regulation dell’Unione Europea, inizialmente detestato, fornisce ora un modello che le compagnie saprebbero già come gestire. Alcuni osservatori temono, anzi, che regole troppo rigide per proteggere la privacy degli utenti potrebbero inavvertitamente favorire proprio i colossi, che avrebbero le risorse per implementare i regolamenti, mentre le compagnie più piccole potrebbero essere tagliate fuori dai costi proibitivi degli stessi.
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