Gucci, il brand italiano di maggior valore economico
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Brand Italia, nella top 10 dei Paesi più attrattivi per gli investitori stranieri

(Getty Images)

Articolo apparso sul numero di novembre 2018 di Forbes Italia. 

Per testimoniare il suo amore per l’Italia, Michael Kors ha voluto ribattezzare la sua holding americana con il nome Capri. Una scelta che serve ad addolcire l’amaro per la cessione della maison Versace, uno dei marchi simbolo del boom del fashion italiano: 1,83 miliardi di euro per assicurarsi la Medusa, mica poco per un’azienda che nel 2017 ha guadagnato 15 milioni su un fatturato di 660 e rotti. Ma la conferma che nella moda, come in altri settori forti del made in Italy, alimentari ed arredamento, la grande asta non si ferma: secondo Kpmg, tra l’inizio del 2017 e la prima metà del 2018, sulle 327 operazioni di compravendita censite nel mondo della moda, più di sessanta, il 21% per l’esattezza, hanno avuto per oggetto un’azienda italiana.

“Dovremmo essere la prima multinazionale della moda al mondo”, sospira sconsolato l’economista Giulio Sapelli, facendo la conta dei gioielli che hanno cambiato casacca dal Duemila in poi, cedendo alle lusinghe delle ammiraglie francesi del lusso o dei capitali dei fondi sovrani del Golfo: Gucci, Bulgari, Loro Piana, Valentino e altri ancora. E non è difficile prevedere che nel mirino, prima o poi, finiranno altri nomi di prestigio, da Ferragamo a Trussardi, per citare due tra i dossier che circolano tra le banche d’affari. Ma l’industria italiana non è solo made in Italy. Il Bel Paese è una grande potenza manifatturiera, con una bilancia commerciale solida, seconda solo alla Germania. Ovvero l’obiettivo ideale per accelerare la penetrazione sui mercati, non solo europei.

Come sanno bene i cinesi che, dati a fine 2017, hanno accumulato partecipazioni in 514 aziende italiane per un totale di 26mila dipendenti e di un fatturato di 13.991 milioni di euro. Per non parlare dell’investimento finanziario in Banca Intesa, Unicredit, Telecom Italia ed Enel, per citare alcuni nomi. La metà nerazzurra di Milano resta saldamente nelle mani del colosso Suning, quest’anno prodigo di investimenti. I ristoranti attorno a viale Sarca, il regno della Bicocca, sono affollati all’ora di pranzo di ingegneri del Celeste Impero impegnati ad assorbire i segreti di Pirelli. E del risotto giallo. A giorni arriveranno in zona anche i tecnici di Calsonic Kansei, la società giapponese controllata dal fondo Usa Kkr destinata a maritarsi con Magneti Marelli dopo la vendita da parte di Fiat Chrysler, a caccia, come i concorrenti, dei capitali necessari per sostenere la trasformazione del mondo a quattro ruote.

Qualcuno storce il naso, ma anche i sovranisti più incalliti devono spalancare le porte ai forestieri. Non a caso, solo poche ore dopo l’annuncio di Kors, deciso a sfidare le griffe transalpine dai possedimenti nel Bel Paese, il premier Giuseppe Conte varcava a New York il portone di BlackRock per incontrare Lawrence Fink, il boss più potente del mondo del risparmio, con l’obiettivo di attrarre l’interesse dei grandi investitori, così come aveva fatto pochi giorni prima il ministro Giovanni Tria in Cina. La paura dell’invasore insomma, cede il passo a Italia first, versione tricolore dei piani di Donald Trump per attrarre capitali in Usa con l’obiettivo di creare posti di lavoro.

Una missione che negli ultimi anni ha preso velocità a giudicare dal rapporto 2018 sui flussi globali di investimenti diretti esteri, pubblicato dalla società di consulenza americana AT Kearney. L’Italia, per la prima volta dal 2004, è entrata nella top 10 dei Paesi più attrattivi per gli investitori stranieri, collocandosi dietro Germania (al terzo posto), Gran Bretagna (quarta) e Francia (settima), ma davanti a partner Ue come Olanda, Svezia e Spagna. A che si deve questo exploit? “Gli investitori internazionali che abbiamo interpellato”, spiega Marco Benassi, partner della società, “apprezzano la capacità delle aziende italiane di aumentare la quota di export sui mercati internazionali così come la crescente presenza di startup ed aziende innovative”.

A far da calamita è stato soprattutto il varo di Industria 4.0, di cui hanno beneficiato molti investitori internazionali. Superato il blocco della recessione, insomma, l’Italia ha i numeri per poter stare al passo con i competitor annullando il ritardo accumulato negli anni più difficili. Nel 2012, al culmine della crisi dello spread, si erano di fatto azzerati. L’incidenza del capitale estero sulla nostra economia, in termini di flussi e di stock (dati Banca d’Italia per il 2017) è risalita al 21%, ancora in ritardo rispetto alla Francia (il 34%). Un gap che si spiega in buona parte con l’incertezza sui comportamenti della pubblica amministrazione, sia centrale che in sede locale. E con i nodi storici che condizionano l’attività delle imprese nel Bel Paese, dall’emergenza giustizia, specie nel Mezzogiorno, allo stato delle infrastrutture, di cui è diventato tragico simbolo il ponte Morandi di Genova.

Secondo il report Doing business 2018, della Banca Mondiale, figuriamo al 46° posto nel mondo (in salita dal 50°) per qualità ed efficienza dell’ambiente imprenditoriale, burocratico e amministrativo, su 189 economie. Il richiamo del Bel Paese, nonostante le difficoltà, resta però fortissimo. Secondo l’indagine condotta da Brand Finance in partnership con il Financial Times, il brand Italia è salito al nono posto nel mondo per capacità di attrarre gli investitori, grazie ad una rimonta spettacolare: tra il 2016 ed il 2017 il marchio Italia ha registrato un aumento di valore nell’ordine di 500 miliardi di dollari nella percezione degli investitori, collocandosi al quarto posto in termini di variazione (da un valore di 1.521 a 2.034 miliardi di dollari) davanti a Usa e Giappone. E per verificare gli effetti di questa ripresa basta una visita allo Starbucks di piazza Cordusio, l’ex sede umbertina delle Poste che Howard Schultz, il numero uno della catena Usa, ha trasformato nella vetrina europea del gruppo in omaggio “all’artigianalità del Bel Paese”.

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