Con la scomparsa di George H.W. Bush, morto pacificamente il 30 novembre nella sua casa di Houston all’età di 94 anni, se ne va non solo il presidente americano più longevo di sempre. Se ne va un’idea di presidenza, per la precisione quella concepita dai Padri Fondatori. Quella di una carica altissima e venerabile da meritare con un curriculum impeccabile. E facendo anche parte di una famiglia già ben introdotta e parte di una élite, che prima che essere economica è soprattutto morale. Per questo lui, all’età di 17 anni, subito dopo Pearl Harbour, decise di arruolarsi in Marina al compimento del diciottesimo anno di età. Nonostante il Segretario alla Guerra di allora, Henry Stimson, avesse raccomandato ai giovanissimi di iscriversi all’università. Ma lui, figlio di Prescott, prominente banchiere, uomo d’affari e futuro senatore, sapeva di non essere come gli altri. E di dovere alla nazione che gli aveva già dato tanto, anche qualcosa di più. E così fece, partecipando a 58 missioni di combattimento fino alla fine della guerra, nel settembre del 1945.
Dopo essersi laureato in economia a Yale, decise di lasciare il New England dove avrebbe potuto facilmente trovare un posto in qualche consiglio d’amministrazione per andare a investire in un business che stava risorgendo dopo la guerra: l’estrazione di petrolio nel Texas occidentale. Ma anche quella fu una breve parentesi, che pur gli garantì una ricchezza considerevole.
Il suo futuro era in politica. E decise di farla da repubblicano. In uno Stato a quell’epoca ancora dominato dal partito democratico nella sua versione segregazionista. Infatti la sua prima candidatura al Congresso nel 1964 fu segnata dall’insuccesso, in un anno che vide il trionfo del democratico texano Lyndon Johnson alla presidenza, sulla scia dell’emozione per l’assassinio del presidente Kennedy, avvenuta proprio in Texas. Ma due anni più tardi il quarantaduenne Bush ce la fece, ed entrò. Per la prima volta un repubblicano avrebbe rappresentato Houston alla Camera dei Rappresentanti. Fu l’inizio di una lunga carriera da servitore delle istituzioni, pur da una chiara posizione politica, un conservatorismo temperato che favoriva l’impresa e il libero mercato senza però minare l’unità nazionale. Del resto in quel periodo la cooperazione tra i partiti era fondamentale. Durante i sei anni della presidenza Nixon e in quella brevissima di Ford, la maggioranza democratica sostenne la maggior parte dei provvedimenti, presi in un’ottica di cooperazione costruttiva. Fu in questo periodo che Bush mostrò il suo spirito di servizio, passando rapidamente da una carica all’altra, mentre sull’onda del Watergate il partito repubblicano entrava in crisi: ambasciatore presso le Nazioni Unite, Presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, rappresentante diplomatico in Cina e infine direttore della Cia. Carica quest’ultima persa per l’avvento del primo outsider politico alla presidenza, il semisconosciuto governatore della Georgia Jimmy Carter.
Bush tornò sulla scena nazionale come vicepresidente di un outsider ancora più sconvolgente: l’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan sulle cui ricette neoliberiste l’ex direttore della Cia aveva espresso perplessità definendole “economia voodoo”. Ciò non gli impedì di servirlo fedelmente e di sostituirlo in un momento critico, subito dopo l’attentato del 30 marzo 1981 che ferì gravemente il presidente. Da allora ne divenne il suo più fedele collaboratore. E gli succedette alla presidenza dopo otto anni. Su quella scia Bush ne mitigò alcune posizioni, aumentando le tasse per bilanciare il deficit provocato dal taglio delle aliquote massime del 1981 e su questo si giocò la presidenza. Non attaccò mai personalmente il suo avversario Bill Clinton nel 1992 e forse questo lo danneggiò. Ma anche in quell’occasione, come scrisse nella sua lettera di commiato, preferì di no. “Il tuo successo sarà il successo dell’America”così augurò al suo successore. Per mantenere un’immagine di nazione “più umana, più gentile”, Bush aveva rinunciato alle bassezze delle moderne campagne elettorali. E pur facendo uso di consulenti aggressivi come Lee Atwater, non esagerò mai, mantenendo sempre un’immagine non solo di “chief executive” ma anche di rappresentante dell’unità nazionale. Cosa che nessuno dei suoi successori sarebbe riuscito a fare.
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