Il Venezuela sta affrontando la sua ennesima, forse definitiva crisi, con il presidente degli Stati Uniti Trump, il premier canadese Justin Trudeau, l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini e sette paesi sudamericani che si sono detti favorevoli a un cambio di regime nel paese. Mercoledì Jaun Guaidó, presidente dell’Assemblea Nazionale del Venezuela, il Parlamento uscito dalle elezioni del 2015 e controllato dalle opposizioni ma a detta di molti analisti svuotato di potere, si è autoproclamato presidente ad interim del paese. La risposta del presidente venezuelano in carica Nicolas Maduro è stata durissima, con l’interruzione di qualsiasi rapporto con gli Stati Uniti e dando ai diplomatici americani 72 ore per lasciare il paese.
È solo l’ultimo capitolo di una storia che ci parla dello spostamento progressivo a destra del continente americano, che solo pochi mesi fa ha visto l’ex militare Jair Bolsonaro e il suo partito iper-liberista trionfare in Brasile dopo quindici anni di governo del Partito del Lavoratori. Mercoledì Bolsonaro ha detto che l’elezione di lui e dei suoi epigoni in Sudamerica è il segno che “l’ideologia di sinistra non prevarrà nella regione”. E i mercati sembrano apprezzare lo sviluppo degli eventi: i titoli di Stato venezuelani, in default dal 2017 quando arrivarono le ultime sanzioni americane, stanno riprendendo quota.
Secondo l’investment manager Jan Dehn, intervistato da Axios, un cambio di passo in Venezuela potrebbe essere “una enorme opportunità”, e se Guaidó dovesse prendere il potere, il valore dei bond nazionali potrebbe raddoppiare in poco tempo. In altre parole, gli investitori starebbero “prezzando” positivamente la fine di Maduro, percependo come più vicina la ristrutturazione completa del debito del paese.
Nel complesso, però, i segnali dai mercati sono piuttosto blandi, e la preoccupazione per il Venezuela sembra poca roba a confronto dei rischi legati alla guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, e il rallentamento dell’economia americana a causa dello shutdown governativo più lungo della storia. I prezzi del greggio restano stabili dopo un piccolo calo nella giornata di ieri, nonostante la confusione che regna a Caracas. Le cose potrebbero cambiare rapidamente, però, se venissero confermate nuove sanzioni degli Stati Uniti contro l’export petrolifero venezuelano.
La verità è che i dati catastrofici sulla produzione venezuelana di questi ultimi dieci anni hanno emarginato sempre di più il paese dal resto del mercato globale, che non sembra patire troppo gli ultimi tormenti. Il gettito di petrolio è ai minimi da 70 anni a questa parte, diretto quasi interamente verso Cina, Russia e Cuba, che sono in rallentamento economico già per conto loro. Il Venezuela resta però un attore chiave per i colossi petroliferi americani, che usano quantità importanti del suo greggio extra-pesante. Secondo Bloomberg, le raffinerie in Texas e in Louisiana verrebbero colpite molto duramente da eventuali sanzioni della Casa Bianca contro il Venezuela, e sarebbero costrette a trovare approvvigionamenti alternativi.
Ma colui che verrebbe danneggiato più di tutti dalle sanzioni sarebbe senz’ombra di dubbio Maduro, che dopo la sua rielezione ha vissuto un secondo mandato all’insegna del disastro economico più totale. Tanto per citare i numeri più clamorosi, parliamo di un’inflazione che è stata stimata in oltre il 1.000.000 per cento, di tasso di povertà vicino al 90 per cento e di una malnutrizione infantile diffusissima. Come se non bastasse, ai danni materiali si sono aggiunti quelli sociali: secondo questa classifica due delle 10 città più pericolose del mondo sono in Venezuela; il tasso di omicidi nel paese è, cifra più cifra meno, vicino alle 90 unità su 100 mila abitanti (per fare un confronto, in Italia è di 0,9 su 100 mila abitanti) e 3 milioni di persone hanno già lasciato il paese: vale a dire un venezuelano su 10, più dei migranti dalla Siria, e più del flusso annuale di africani che cerca ospitalità in Europa ogni anno. Una vera e propria emergenza umanitaria che sta provocando reazioni razziste e autoritarie in tutte le regioni che confinano col paese.
La fine di Maduro potrà pure rappresentare una svolta per il Venezuela, ma nessuno si illuda di trasformare questo problematico “petrostato”, dominato dalla corruzione, dagli sprechi e dalle gang, in un’economia efficiente nel giro di pochi anni. Le ragioni sono molteplici: innanzitutto, mentre l’inflazione oscilla a livelli dello Zimbabwe, il Venezuela deve ai creditori circa 150 miliardi di dollari, che comprendono titoli di stato governativi e prestiti da parte Cina e Russia: per il 91 per cento detenuti da appena 400 soggetti. Il nuovo governo dovrà probabilmente effettuare tagli importanti e mostrare garanzie sostanziose prima di poter mettere di nuovo piede nel mercato creditizio internazionale con un “abito” nuovo di zecca.
Lo scenario più probabile? Un salvataggio mediato – tanto per cambiare – dal Fondo Monetario Internazionale, che per anni non ha potuto avvicinarsi al paese. Nell’immediato, però, per risollevare la situazione dei venezuelani, l’unica speranza sarà molto più umiliante, sotto forma di un vasto programma di aiuti alimentari e di beneficenza da parte delle nazioni amiche, per una nazione che fino a dieci anni fa puntava a rappresentare il faro di sviluppo economico progressista dell’area.
Tutta colpa del socialismo, dunque? La simbologia di questa crisi è fin troppo facile da usare per prediche ideologiche. Ma la realtà è più sfumata. Sebbene certe scelte economiche associate con quello che fu ribattezzato “socialismo per il Ventunesimo secolo” abbiano avuto un’influenza importante nella direzione del paese, tra il 1999 e il 2011 la quota dell’economia nelle mani dei privati è addirittura aumentata, passando dal 65 per al 71 cento. Sarà stato anche governato a lungo dagli statalisti, ma il Venezuela è sempre rimasto parte della famiglia capitalista.
Il guaio è che le ricette più innovative e generose, frutto dei proventi del petrolio della metà dei Duemila, sono state implementate in una società profondamente divisa, conflittuale, diffidente, con una classe politica e militare profondamente corrotta. La risposta dell’ex militare Hugo Chavez, di fronte a questi problemi, è stata la promessa di una trasformazione sociale importante e di una collettivizzazione dell’economia che è avvenuta molto parzialmente, concentrando sulla sua figura, sull’esercito e sul socialismo tutte le speranze di riscatto. Speranze che iniziarono a scricchiolare anche prima della fine del leader più amato, nel 2013, quando il prezzo del greggio stava già calando e la crescita si era arrestata. Il nepotismo, l’arroganza, l’incompetenza dei suoi successori hanno fatto il resto.
Tranne miracoli, è il tramonto per quello che resta forse l’esperimento politico più ambizioso della storia sudamericana recente, e più in generale per l’utopia radicale nei paesi in via di sviluppo.
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