lady gaga con una statuetta in mano
Cultura

Notte degli Oscar 2019: un’edizione di pura accademia

lady gaga con una statuetta in mano
Lady Gaga agli Oscar 2019 (Frazer Harrison/Getty Images)

Il conformismo trionfa agli Oscar 2019. Nella sostanziale delusione artistica, almeno c’è chiarezza nel “messaggio ai naviganti”. Se volete collezionare statuette d’oro, cari cineasti, d’ora in avanti fate film lineari per racconto e che possano essere capiti dal grande pubblico moderno, dove moderno vuol dire equiparazione di quello da sala con quello da divano.

Infatti hanno vinto: Green Book di Peter Farrelly come miglior film; Roma di Alfonso Cuarón (e di Netflix) come miglior regia, fotografia e film straniero e Lady Gaga (maddai?!) come miglior canzone per Shallow.

Quest’anno si fronteggiavano film con idee molto diverse su cosa sia fare cinema. I due esempi più macroscopici di esclusione dai premi, e che appunto certificano la scelte paludate di quest’edizione, sono Vice di Adam McKaye e Cold War di Paweł Pawlikowski.

Se Green Book batte Vice e Roma batte Cold War – e la colonna sonora di tutto questo è il premio come miglior attore a Rami Malek per Bohemian Rhapsody, vuol dire che si voleva stare sul sicuro.

Green Book, intendiamoci, è un bel film, godibilissimo, con ottimi attori e con un messaggio di tolleranza e accettazione dell’altro. Un film che mette e lascia di buon umore (senz’altro un grande pregio) e parla anche a quelli che, appunto, non la pensano già così. Tuttavia è un film classico, ha un inizio uno svolgimento e una fine, dialoghi e musica, si ride e si pensa. Vice, al contrario, è un film che pur nella sua linearità cronologica, si pone in maniera dialettica con lo spettatore: lo considera insomma un adulto col quale avere un dialogo e col quale giocare su contenuti e forme. Green Book ci tratta invece come bambini da portare per mano.

Guardatevi il montaggio di Vice e poi quello di Bohemian Rhapsody: il primo è un discorso fatto di accelerazioni e lampi, riflessioni e inversioni, il secondo un videoclip, super professionale, certo, ma rimane un videoclip. Statuetta a Bohemian Rhapsody. L’Oscar a Vice come miglior trucco e acconciatura suona quasi risibile. Come premiare un grattacielo nella categoria “altezza da terra”.

Ancora più evidente la distanza tra Roma di Cuarón e Cold War. Il primo è un bianco e nero per quelli che non hanno mai visto un film in bianco e nero. E’ il cavallo di troia di Netflix che da una parte col proprio algoritmo spietato decide quali serie tv guarderemo nel futuro, ma dall’altra riesce a conquistarsi l’attestato (vogliamo dire l’Oscar?…) del produttore di qualità con un film che di autoriale ha solo l’aspetto esteriore. Di nuovo ha invece che si poteva scegliere se vederlo in sala o sul divano di casa. Ma la scelta, attenzione, è solo apparente. Fate la prova: vedrete due film molto diversi.

Al contrario Cold War è un capolavoro. Il suo difetto, si diceva a Cannes quest’anno quando fu presentato, è che è troppo perfetto. Non ha sbavature, non ha scorciatoie, non strizza l’occhio, e proprio nei confronti diretti (è un film straniero, ha una regia impeccabile, è fotografato in maniera superlativa) perde contro Roma.

Torna alla mente un piccolo aneddoto: Pawlikowski aveva mandato la sceneggiatura di Cold War a Cuarón, il quale l’aveva molto criticata e allora il regista polacco aveva deciso di soprassedere a fare il film. Poi per fortuna ci ha ripensato. A noi fa sorridere il meno talentuoso che dice al più talentuoso: così non va bene. Ma è lo show business, baby.

Ultime due note: si dice che questa edizione faccia giustizia agli afroamericani. Ma anche questa è una scorciatoia: Il tema è troppo serio perché basti così poco e perché i diritti civili siano ridotti a materia di compensazione. Infine, anche il miglior documentario, una categoria di linguaggio molto sensibile, è andato a un film, Free Solo di Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin, che non regge il confronto con gli strepitosi temi del passato.

 

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